A Capodanno, per tutto l’anno…

Pubblicato: febbraio 7, 2015 in Horror
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Grandi pulizie (18:00)

“Capodanno! Non sei contento? Forza, c’è da pulire tutto!!”
disse allegra Carrie, porgendo con un sarcastico sorriso una scopa al fratello Carlo.
Il ragazzo sbuffò, scuotendo i corti riccioli dorati.
“Questo dovrebbe invogliarmi a farlo?” si lamentò, afferrando quell’oggetto come se fosse stato creato direttamente dal demonio.
“Tra poco arriveranno, non possiamo lasciare la casa in queste condizioni!”
Carlo si voltò verso la sorella, per ribattere a quell’osservazione, ma lei era già sparita oltre la porta, diretta probabilmente in giardino per ripulirlo dalle erbacce. Sua sorella amava il giardinaggio.
Il giovane stringeva ancora la scopa in pugno, e finalmente si decise ad usarla, colpendo con rabbia il pavimento in pietra con la saggina.
“Capodanno … non sei contento? Forza, c’è da pulire tutto…” ripeté con voce in falsetto, canzonando la sorella. Carrie adorava il Capodanno, per lui, invece, era un giorno come tutti gli altri.
Sbuffò ancora, continuando a pulire quel grande pavimento del soggiorno. Presto sarebbero arrivati alcuni loro amici per festeggiare tutti insieme in quella grande casa, di proprietà degli zii di Carlo e Carrie.
Un lieve sorriso si fece strada sulle labbra di Carlo, al pensiero. Certo, lui non amava il Capodanno, in compenso non provava alcun dispiacere nel rivedere Amanda, la sorella del suo migliore amico. Era zona proibita per lui, ma nessuno gli avrebbe potuto impedire di rifarsi un po’ gli occhi.
Prese a pulire con rinnovato vigore, appuntandosi mentalmente di ripulire il camino, così da poterlo accendere per scaldare l’ambiente… e convincere Amanda a togliersi qualche strato di vestiti.
Improvvisamente gli parve di sentire un rumore alle sue spalle, vicino alla porta rimasta aperta. Non vi diede troppo peso, probabilmente si trattava di sua sorella che aveva terminato il lavoro in giardino.
Quando il rumore si fece più vicino, Carlo si voltò, un sorriso beffardo stampato sul volto.
“Volevi cogliermi di…”
Le parole si fermarono in gola e il sorriso scomparve dal volto.

Dopo poco, Carrie fece ritorno in casa, rossa per il freddo e la fatica.
“Carlo, ho bisogno del tuo aiuto, non riesco a fare tutto da sola!”
Lievi nubi di vapore uscivano dalle sue labbra, quando varcò la porta di casa, in cerca del fratello.
La luce era spenta, strano.
“Vuoi farmi uno scherzo?” disse la ragazza, scrutando l’oscurità alla ricerca di qualche movimento.
“Oh, insomma, Amanda e Robin tra poco saranno qui, non c’è tempo di scherzare!” con rabbia Carrie premette l’interruttore della luce, per poi voltarsi nuovamente verso il salotto.
Si fermò, rigida, impietrita. Il cappello che stringeva tra le mani cadde a terra.
Suo fratello giaceva per terra, sopra un mare di sangue che quasi riempiva il pavimento, la scopa ancora stretta tra le sue mani.
Ma quello che la colpì di più fu una scritta sul muro immacolato, tracciata col sangue del fratello.
“Chi pulisce a Capodanno poi pulisce per tutto l’anno”

Una serata speciale (20:00)

Era il grande giorno.
Lorenzo si allontanò dalla tavola, per controllare che tutto fosse pronto. Ogni cosa doveva essere perfetta per quella cena. La grande tovaglia rossa era pulita e stesa alla perfezione, i piatti erano ordinatamente riposti, le posate sistemate secondo il Galateo, i vari bicchieri puliti. Lorenzo ne afferrò uno e lo annusò. Perfetto: nessun odore.
Il suo sguardo si spostò sul candelabro al centro della grande tavola, a Francesca sarebbe piaciuto da morire cenare a lume di candela, il giorno di capodanno.
E poi c’era il resto…
Lorenzo e Francesca stavano insieme da tre mesi, e, nonostante tutti i tentativi del ragazzo, la giovane aveva sempre posto un freno alle sue voglie. Ma questa volta sarebbe stato diverso, era tutto programmato.
Una notte perfetta per un Capodanno perfetto.

Lorenzo si spostò nella camera da letto dei genitori, dove il grande letto matrimoniale era stato addobbato con rose e circondato da candele, per creare la giusta atmosfera. Che fortuna che quei bacchettoni avessero deciso di passare le feste da alcuni loro amici, questo gli permetteva di avere la casa libera.
In quel momento il campanello suonò. Francesca era arrivata, puntuale alle venti.
Lorenzo afferrò al volo un bicchiere già ricolmo di champagne, preparato in precedenza, e si diresse con rapidità alla porta.
La spalancò, sorridendo alla figura che gli si presentava davanti: una giovane con lunghi capelli color del grano e profondi occhi azzurri. Una Venera in terra, ancora non capiva come potesse perder tempo con lui.
“Ciao amore” disse lei timidamente, varcando la soglia di casa con le gambe snelle e aggraziate.
“Ciao” rispose Lorenzo, già gli mancava il fiato. Con un sorriso le porse il bicchiere, che lei prese arrossendo leggermente.
“La cena non è ancora pronta” si scusò lui, abbassando lo sguardo per non incontrare gli occhi della sua ragazza.
“Oh… non importa…” disse lei gentilmente, guardandosi intorno.
Lei conosceva già la sua casa, vi era stata molte volte, il suo atteggiamento mostrava semplicemente un grande disagio, e Lorenzo non ci mise molto a capirlo.
“Amore…” lentamente fece passare le braccia intorno al corpo della giovane, stringendola a sé.
Il rossore sulle guance di lei si fece ancora più diffuso, ma la ragazza non lo respinse, circondandogli anzi il collo con le bianche braccia…
“Ti amo…” le sussurrò il ragazzo, mentre affondava la testa contro il suo collo, per inalare il suo profumo.
“Anche io…” rispose lei, lievemente più rilassata, ma ancora un po’ tesa.
Lorenzo si scostò appena, così da poterla guardare in tutto il suo splendore.
“Sei bellissima” disse, portando le mani sulla sua camicetta per slacciarla con calma. La giovane non si oppose, e lui continuò a spogliarla delicatamente, ormai dimentico del cibo lasciato in cucina.

Ormai nudi i due si strinsero sul letto di rose, continuando a baciarsi e ad accarezzarsi.
Lorenzo la guardò ancora, rosso dall’eccitazione.
“Amore… posso…?”
Prima che lei potesse rispondere, un rumore attirò l’attenzione di entrambi.
Francesca spalancò gli occhi, piena di terrore.
“C’è qualcuno in cucina!”
Lorenzo si voltò appena, indeciso. Da una parte non voleva separarsi dalla ragazza, ma sapeva anche che lei non si sarebbe mai concessa, finché era spaventata.
“Vado a controllare” disse quindi, di malavoglia.
Ancora nudo, si alzò dal letto, dirigendosi stancamente verso la cucina.
Aprì la porta, guardando davanti a lui, una lieve brezza gli scompigliava i capelli e gli raffreddava il resto del corpo. La finestra era aperta.
“Ma come…?” Lorenzo si avvicinò all’apertura, sporse la testa fuori, guardando in entrambe le direzioni, ma non vide niente, solo l’oscurità della sera.
“Forse il vento…” era convinto di aver chiuso quella finestra… del resto perché avrebbe dovuto lasciarla aperta il trentuno di Dicembre, quando fuori segnava -2 gradi?
Non ci pensò molto, aveva cose più piacevoli a cui pensare, in camera da letto.
Preso dall’euforia, uscì dalla cucina senza accorgersi che il pollo, lasciato al caldo dentro il forno, aveva qualcosa di strano: gli mancava una coscia.

“Il vento ha aperto una finestra… niente di cui preoccuparsi” disse Lorenzo, una volta tornato dalla fidanzata.
Francesca gli sorrise, aprendo le braccia, in un tenero invito. Il giovane non attese oltre, subito tornò sul talamo, tra le braccia della sua donna.
“Allora… posso…?” chiese nuovamente, sfiorando il suo ventre con le dita.
“Sì…” rispose lei in un soffio, stringendolo a sé.
L’archeologo entrò nel tempio, accecato da tanta gloria e ricchezza.
Fu il suo ultimo trionfo.

Il giorno dopo i genitori del ragazzo li avrebbero trovato ancora lì, sul letto, stretti in un caloroso abbraccio, uno nel corpo dell’altra.
Uniti per sempre da una picca che li aveva perforati.
Sulle pareti color crema, una scritta creata col sangue:
Chi fa l’amore a Capodanno poi lo fa per tutto l’anno

Giovane campione (22:00)

“Certo è un orario insolito per una gara… soprattutto la notte di Capodanno!” si lamentò Josh, calandosi con più forza il cappello sul capo.
La moglie, seduta accanto a lui, sbuffò appena, volgendosi a guardarlo.
“Oh, insomma Josh! Devi sempre lamentarti!”
“Non mi sto lamentando, dico solo che avrebbero potuto rimandare a un altro giorno…”
“Ma stai zitto! Oh, oh, guarda, piuttosto, stanno iniziando!”
L’attenzione di tutti e due si spostò dall’insolito orario a ciò che stava accadendo sotto i loro occhi.
Erano seduti sulle scalinate della piscina comunale, insieme ad altri orgogliosi genitori, e, sotto di loro, si stava svolgendo la finale di nuoto della Scuola Media Volta.
Il loro unico figlio, Filippo, era uno dei partecipanti, insieme ai suoi compagni.

I ragazzini erano schierati sulla linea di partenza, pronti al via. Determinati, ma anche divertiti da quella competizione. Filippo aveva l’espressione tesa, decisa. Per lui non era solo un modo per passare il tempo tra compagni, lui adorava nuotare, prendeva lezioni con sempre maggior entusiasmo e non mancava mai di seguire le gare più importanti, nonostante avesse solo dodici anni. La madre era fiera di lui, il padre, invece, avrebbe preferito si concentrasse maggiormente sullo studio, visti i pessimi voti.
Al via si tuffò in acqua, leggero e rapido come un pesce, i muscoli gli dolevano per lo sforzo, ma lui non rallentò mai, sicuro delle proprie capacità e desideroso di vincere.

La mano del ragazzino toccò la sponda della piscina e lui riemerse, togliendosi gli occhialini di scatto per guardarsi attorno. Tutti i suoi compagni erano indietro. Era primo.
Alzò lo sguardo, sentendo il boato delle acclamazioni da parte di parenti e amici. Aveva vinto.

Dopo la gara, tutti i bambini corsero verso gli spogliatoi per rivestirsi, mentre i genitori, lentamente, si dirigevano verso l’ingresso, pronti a recuperare i figli.
Filippo si attardò, rispetto ai suoi compagni. Rimase qualche secondo a contemplare la piscina, un sorriso fiero stampato sul suo volto.
“Ho vinto…” sussurrò a se stesso, gonfiando il petto. Mantenendo un sorriso di gloria sul volto, si voltò per dirigersi verso gli spogliatoi, ma dopo pochi passi qualcosa attirò la sua attenzione.
Un gattino, bianco e nero, che si allontanava di corsa, dirigendosi verso la piscina.
Subito Filippo decise di seguirlo, per assicurarsi non cadesse in acqua.

“Micio! Vieni fuori!”
Il ragazzino si guardò attorno, ma del gattino non sembrava essere rimasta alcuna traccia. Possibile fosse già caduto in acqua?
Lentamente si avvicinò al bordo della piscina, sporgendosi per guardare meglio.
Qualcosa lo spinse, facendogli perdere l’equilibrio. Finì in acqua e la pressione di una mano sul capo fu l’ultima cosa che sentì.

Pochi minuti più tardi, i genitori di Filippo si diressero verso la piscina, in cerca del figlio, già preoccupati per il fatto di non averlo trovato nello spogliatoio. Quando raggiunsero la vasca, la madre del ragazzino urlò e vacillò, prontamente sorretta dal marito, il volto bianco come il gesso.
Il loro unico figlio galleggiava a pancia in giù nell’acqua placida. Sull’asciugamano immacolato, steso sul freddo pavimento, capeggiava una scritta vergata con un pennarello rosso.
“Chi nuota a Capodanno, poi nuota per tutto l’anno”

Marketing (23:59)

Mancava solo un minuto a mezzanotte. Un minuto e ancora Silvia non si era fatta vedere.
Marion passeggiava nervosamente in salotto, l’espressione accigliata e le mani che si contorcevano freneticamente, in preda a un misto di rabbia e preoccupazione.
E se le fosse successo qualcosa?
Cookie, il cucciolo di bulldog francese che avevano preso poco tempo prima, giaceva addormentato davanti al caminetto.
In quel momento la porta si aprì, ed il rumore contribuì a svegliare anche il piccolo animale.
Marion si voltò frenetica verso l’uscio, osservando la figura della compagna che si stagliava nel buio della notte.
“Silvia! Era ora!”
disse, ma in fondo era sollevata di vederla sana e salva.
“Non è prudente girare a quest’ora…” aggiunse, avvicinandosi, seguita a ruota dal cagnolino, desideroso di salutare la padrona appena arrivata.
Silvia si chiuse la porta alle spalle, levandosi il cappello e scuotendo i corti capelli biondi.
“Oh… quanto sei pesante!” disse scherzosamente, arruffandole i capelli. Quindi batté una mano sulla gamba, così da incentivare il cane ad aggrapparsi con le due zampette anteriori.
Sollevata dalla ricomparsa della bionda, Marion si concentrò su cose più futili, ma che, al momento, le stavano molto a cuore.
“Hai davvero intenzione di aprire, domani?” domandò, mentre un lampo di tristezza le attraversava gli occhi.
“Dai amore, in fondo il negozio appartiene a tuo zio, è giusto dare una mano, in famiglia”
“Ma domani è festa!” si lamentò lei tristemente “E poi lo zio voleva tenere chiuso, sei tu che hai insistito per aprire!”
Lo zio di Marion da tempo aveva un negozio di Pompe Funebri, la sua gioia e il suo orgoglio. Silvia aveva deciso di dargli una mano, nel tempo libero, e l’aveva convinto a tenere aperto il primo di Gennaio.
“Appunto!” rispose la bionda, con gli occhi che le brillavano “Nessuno tiene aperto, quindi potremo battere sul tempo la concorrenza!”
Marion sbuffò appena, scuotendo la testa: quando Silvia si metteva in testa qualcosa, non c’era modo di farla desistere.
“Ma chi mai si prende la briga di cercare una bara il primo di Gennaio?”
Osservò la bionda allontanarsi, mentre il cagnolino la seguiva, continuando, quando la ragazza si fermava, a saltare sulle due zampe ed appoggiarsi ai pantaloni della padrona.
“Buono Cookie” disse Silvia, sorridendo appena e accarezzando il cagnolino.
“Tranquilla, qualcuno ci sarà…” rispose quindi, sorridendo alla ragazza.
Quindi portò la mano in una delle ampie tasche del cappotto, estraendo un cosciotto di pollo.
Marion spalancò gli occhi.
“E quello?”
Silvia posò il cosciotto nella ciotola del cane, lasciando che Cookie balzasse sulla sua preda, cominciando a dilaniare la carne con i piccoli denti.
“Bhe, dai, è festa anche per lui!” fu la laconica risposta della ragazza.
Marion scosse le spalle, liquidando la questione con noncuranza.
“Vado a prepararti un panino” disse quindi, scomparendo in direzione della cucina.
Silvia si tolse il giaccone, dirigendosi in camera per cambiarsi. Passando accanto al cane, gli diede una nuova carezza, fischiettando e canticchiando tra sé e sé.

♪“Chi guadagna a Capodanno, poi guadagna per tutto l’anno”♪

Deus ex machina

Pubblicato: agosto 13, 2014 in Altro

Il cappuccino stava ormai giungendo al termine, il livello nella tazza si abbassava sorso dopo sorso e ormai si intravedeva il fondo. Peccato, Ambra ne avrebbe voluto un altro, ma troppa caffeina le avrebbe fatto male, alla fine. L’ultimo sorso la costrinse ad alzarsi, con calma posò la tazzina sul bancone, appoggiandovi accanto i soldi per pagare la sua consumazione. Si girò e se ne andò senza neanche aspettare lo scontrino, ma non prima di aver fatto tintinnare qualche spicciolo nel barattolo delle mance. Non vide il sorriso della cameriera, ma lo percepì chiaramente alle sue spalle, e questo fece sorridere anche lei. Varcò la soglia del locale ed il suo sguardo fu catturato dai tavolini esterni, protetti da un leggero ombrellone… per la precisione ciò che la colpì fu l’unica persona seduta a quei tavolini.
Una ragazza della sua età -almeno, ad occhio- con corti capelli ricci che incorniciavano un volto sbarazzino, cosparso qua e là da piccole lentiggini che quasi risplendevano, baciate dal sole.
Ambra rimase ferma per qualche istante, giocherellò appena col cellulare, per dare un senso alla sua immobilità, mentre il cuore le martellava a mille. Che fare? Andarsene? Oppure parlarle? E con quale scusa, se non la conosceva minimamente? Poteva presentarsi a una sconosciuta così, senza ragione?
Spostò il peso da un piede all’altro, indecisa, ma alla fine qualcosa le diede coraggio. Non sapeva cosa fosse successo, ma all’improvviso si sentiva carica, energica, invincibile.
Con studiata calma si avvicinò alla giovane, che a gratificò di una lunga occhiata.
“Ciao” disse
“Ciao…”
Persino la sua voce risuonava celestiale.
“Sei sola?”
L’altra si guardò intorno, quindi annuì appena, continuando a sorseggiare il suo tè freddo.
“Ti dispiace se ti faccio compagnia?”
Un sorriso si fece strada sul volto della riccia
“No, siediti”
Ambra si sedette, sorridendo con calore alla nuova conoscenza. Il primo passo era fatto, se lei non l’aveva subito respinta allora tanto schifo non poteva farle.
“Piacere, Ambra” disse quindi, porgendole la mano.
L’altra la strinse, ricambiando il sorriso
“Ilenia”
Passarono due ore a chiacchierare, sedute a quel piccolo tavolo di legno grezzo, con il solo ombrellone a fare da scudo contro dei raggi sempre più invadenti. Erano anni che Ambra non si sentiva così bene, la sua ultima storia era stata un disastro, era rimasta incastrata per due anni con una ragazza scontrosa e aggressiva che non faceva altro che tradirla e umiliarla. Da quel momento aveva sempre schivato ogni donna, nella paura di ripetere la stessa esperienza… ma questa volta sentiva che era diverso. Non poteva ancora dire che Ilenia fosse quella giusta, ovviamente, la conosceva ancora troppo poco, ma di certo prometteva bene. Era carina, simpatica, gentile, spiritosa e sapeva farla stare bene. I presupposti c’erano.
“Io ora devo andare a casa” le disse Ilenia, interrompendo i suoi pensieri
“Oh… di già?” Ambra non si era nemmeno resa conto del tempo trascorso, per lei era come se si fosse appena seduta.
“Puoi venire con me, se vuoi” le disse l’altra, arrossendo leggermente ed alzandosi.
Ambra sorrise, alzandosi a sua volta e annuendo appena.
“Volentieri”
Bene, la giornata stava prendendo una piega decisamente interessante.
Ilenia mosse qualche passo verso la strada, seguita a ruota dalla giovane neo-amica.
Proprio in quel momento un’auto apparentemente spuntata dal nulla sfrecciò a velocità impressionante, prendendo in pieno Ilenia. Ambra spalancò la bocca ma non riuscì ad emettere alcun suono, le altre persone presenti corsero sulla scena, ma non c’era più molto da fare…

“Penthos!”
Un grido risuonò nelle sale della Casa degli Dei. Preoccupato, Kalon corse verso la stanza da cui proveniva il grido. Trovò la figlia maggiore in piedi davanti alla Conca del Destino, intenta a guardare l’acqua con rabbia mista a disperazione. Il figlio minore era invece a terra, a poca distanza dalla sorella, probabilmente spinto da lei stessa, un lieve ghigno increspava le sue labbra.
“Si può sapere che succede?” chiese, facendo voltare entrambi i figli nella sua direzione “Perché hai gridato, Filia?” domandò alla figlia, che appariva sconvolta.
“Penthos è cattivo!” sentenziò ella, guardando il fratellino con odio, mentre quest’ultimo continuava a ridacchiare.
Il padre la guardò interrogativamente, per poi avvicinarsi e lanciare uno sguardo allo specchio d’acqua nella conca. Dentro il riflesso vide una folla di persone radunate intorno al corpo senza vita di una ragazza.
Filia continuò la sua filippica contro il fratello, che intanto si stava rialzando dal pavimento.
“Le stavo facendo mettere insieme, ma Penthos è intervenuto e ne ha uccisa una!”
“E’ più divertente così!” si difese il fratellino, volgendo lo sguardo verso il padre “Insomma, perché deve essere tutto sdolcinato?” domandò, con una smorfia di disgusto dipinta in volto.
“Papà, digli qualcosa!”
Kalos guardò entrambi i figli con severità.

“Adesso basta! In punizione, tutti e due, ve l’ho detto mille volte che non dovete giocare con gli esseri umani, sono fragili!”

Pareti bianche

Pubblicato: luglio 3, 2014 in Drammatico

Le pareti bianche della stanza la soffocavano, togliendole il respiro. Odiava quella stanza, odiava quel bianco sgargiante che la accecava, odiava il freddo pavimento di pietra su cui era seduta.

Lasciò vagare lo sguardo lungo le quattro pareti, per poi fissarlo in un angolo, dove una figura rannicchiata costituiva l’unica nota di colore in quei pochi metri quadrati. Si schiarì piano la voce, sperando che questo bastasse a svegliare suo fratello, ma la figura non si mosse.
«Layon!» gridò quindi, ottenendo l’effetto sperato. Il fagotto di carne e abiti si animò, volgendo la testa verso la sorella.
«Buongiorno Maryl»
Lei inarcò un sopracciglio, squadrandolo con attenzione mentre lui si alzava in piedi e la raggiungeva.
«E’ giorno?» domandò, con voce dubbiosa.
«Ho immaginato lo fosse» lui si sistemò accanto a lei, le gambe robuste incrociate a sorreggere il corpo, le mani dietro la testa, così da formare un rudimentale cuscino con cui appoggiarsi alla candida parete.
«Già, hai immaginato» ridacchiò lei «Hai sempre avuto una fervida immaginazione, giusto?» gli domandò, osservandolo con un grande sorriso.
«Se lo dici tu…» ribatté lui, mostrando i denti, bianchi come la stanza.
Maryl sbuffò, guardandosi attorno
«Per quanto tempo dovrò restare in ospedale?» gli chiese
«Finché non guarirai»
«Ma tu continuerai a venirmi a trovare, giusto?»
Il fratello scosse le spalle con noncuranza, regalandole un altro sorriso «Finché lo vorrai»
Maryl osservò i suoi corti capelli ricci che gli accarezzavano il collo, amava accarezzargli, sembravano i capelli di una bambola, soffici come un dorato campo di cotone.
Ad un tratto, quasi risvegliata da un pensiero improvviso, Maryl scattò in piedi.
«Mio padre è ricco e potente, non possono tenermi qui!»
Layon inarcò un sopracciglio, osservando la ragazza
«Nessuno ti tiene qui… vogliono solo aiutarti»
Ricevette solo un’occhiata sferzante in risposta, seguita da un lieve borbottio.
«Nostro padre però non viene mai a trovarmi…» tornò a sedersi, sbuffando appena.
«E’ solo troppo occupato per farlo» ribatté lui, alzando appena le spalle con noncuranza.
«Ma sono sua figlia… non dovrebbe lasciarmi sola qui, in mezzo a tutti questi dottori… ho solo quindici anni…»
Il fratello non rispose, limitandosi a fissare la porta, i muscoli del collo tesi, come se avesse sentito qualcosa.
«Sta arrivando qualcuno»
«Un dottore o un’infermiera, di sicuro» sbuffò Maryl
«Probabile»
Layon si alzò in piedi, allontanandosi di qualche passo dalla sorella. La porta della stanza si aprì e un dottore sorridente fece la sua comparsa.
«Allora, come ti senti oggi Maryl?» chiese, affabile.
«Bene, dottore… posso andarmene?» rispose lei incrociando le braccia e con un broncio sul viso.
«Ancora no, mi dispiace» rispose lui, e dalla sua espressione si sarebbe potuto pensare fosse sincero. Ma Maryl non lo pensava. Si limitò a lanciare un’occhiata al fratello, che le rispose con un sorriso.
«Avanti dottore, mia sorella sta bene» ribatté lui. Maryl annuì con convinzione, osservando il vecchio, impegnato a scrivere su una cartellina.
«Mio fratello ha ragione”» si lamentò. “E lui è grande e grosso” avrebbe voluto aggiungere “Se volesse potrebbe portarmi via da qui… solo che è tanto buono…”
«Ha sicuramente ragione» ribatté il dottore con un grande sorriso. Scrisse ancora qualcosa su quella sua dannata cartella e poi si diresse verso l’uscita. Mosse un passo fuori dalla porta, ma poi si fermò, tornando a voltarsi.
«Maryl, scusa, mi servono alcuni dati per completare la scheda… quanti anni hai?»
«Quindici!» rispose lei, frustrata. Ogni giorno le facevano domande stupide… quanti anni aveva, come si chiamavano i suoi genitori, dove abitavano, quanti anni avevano, come si chiamava suo fratello, quanti anni aveva lui… credevano forse che lei fosse idiota?
Quando il medico fu uscito, Maryl si avvicinò al fratello, appoggiando la testa contro la sua spalla e inalando il suo odore.
«Perché mi fanno tutte queste domande?» gli chiese. Lui si limitò a scuotere le spalle, cingendole il corpo con le braccia.
«Hai battuto la testa, forse vogliono controllare tu non abbia vuoti di memoria» la sua voce però suonava dubbiosa, e questo a Maryl non sfuggì.
«Layon tu sai perché sono qui?» gli chiese, ma non ottene da lui nessuna risposta, solo uno sguardo freddo e spento
«Hai detto che ho battuto la testa… dimmi di più»
«Lo sai» rispose lui, sciogliendo l’abbraccio e allontanandosi da lei, dandole le spalle. Maryl lo osservò curiosa.
«No, non lo so. I dottori continuano a parlare di un incidente, senza dirmi niente di più, non ricordo cos’è successo. Non ricordavo nemmeno di aver battuto la testa, me l’hai detto ora tu!»
Layon scosse la testa, tornando a voltarsi verso la sorella, il volto improvvisamente pallido.
Aprì la bocca, come per dire qualcosa, ma poi la richiuse.
«E’ meglio se vai a dormire, Maryl» la sua voce suonava stanca.
«Se prima era giorno adesso non può essere già notte»
«Ho solo immaginato che fosse giorno. Non lo so. Vai a dormire, Maryl»
Con uno sbuffò la ragazza si voltò, dirigendosi verso un piccolo letto addossato alla parete, le lenzuola bianche come il resto della stanza. Si sdraiò e chiuse gli occhi.
Era certa di averli chiusi solo qualche secondo, ma i suoi sensi dovevano averle giocato uno scherzetto, quando riaprì gli occhi, infatti, suo fratello se n’era andato. Evidentemente si era addormentata. Sospirò appena e si rannicchiò di più dentro le coperte, lasciandosi scivolare nel sonno.

Non fu un sonno tranquillo, gli incubi vennero a visitarla più volte. Incubi frammentati, senza senso, che al risveglio ogni volta svanivano, perdendosi tra le ombre.
Alla fine Maryl si mise a sedere, in un bagno di sudore. Non ricordava quasi niente, solo alcune immagini guizzavano nella sua mente: una colla, delle grida e sangue, tanto sangue.
Quanto tempo aveva dormito? Si guardò intorno, alla ricerca del fratello, ma di lui non c’era traccia. Sospirò appena, tornando a sdraiarsi, gli occhi sgranati fissi sul soffitto. Non avrebbe più preso sonno, non poteva, aveva paura di quegli incubi. Li aveva già fatti, in passato? Qualcosa le diceva di sì, ma non riusciva a ricordarlo.
Le sembrò di sentire un rumore, e subito si voltò. Suo fratello era lì, in piedi accanto a lei. Maryl sorrise, ma il giovane non rispose al suo sorriso.
«Hai ricordato?» le domandò, con tono cupo.
Maryl scosse appena la testa, alzandosi in piedi.
«Sei uno zuccone…» disse con un sospiro «Dimmelo tu cos’è successo, così abbiamo finito»
La risposta di lui la spiazzò
«Se lo so io, allora lo sai anche tu»
Sbatté gli occhi un paio di volte, squadrandolo attentamente.
«Piantala di fare lo sciocco e dimmi cos’è successo» tentò ancora una volta «Forse così i dottori mi lasceranno tornare a casa»
Suo fratello la spaventava, in quel momento. I capelli spettinati, il volto pallido, gli occhi tristi…
«Quanti anni hai?» chiese, sedendosi sul letto, prima occupato da lei.
Lei si sedette al suo fianco, la rabbia evidente nei suoi occhi
«Mi prendi in giro? Quindici! Ne avevo quindici quando è arrivato il medico, non penso di aver cambiato età nel frattempo!»
Era frustrata da tutte quelle domande prive di logica.
Il fratello le afferrò una mano, avvicinandosi di più a lei. Maryl sorrise, era piacevole sentire il suo calore su di sé.
«Maryl, ti ricordi quando sono venuto al mondo?»
Un frammento di ricordo colpì la mente della giovane, che chiuse gli occhi per afferrarlo.
«Sì» rispose quindi, mentre il ricordo diventava più nitido «Nostro padre mi portò a vederti, eri insieme ad altri neonati, fasciato dentro una tutina gialla. Erano tutti silenziosi, ma tu no, tu urlavi a pieni polmoni» una lieve nota di nostalgia trasparì dalle sue parole.
Layon annuì appena, continuando a tenere la mano della sorella tra le sue.
«Sai quanti anni ho io?»
“Di nuovo domande stupide… diamine, certo che so quanti anni ha mio fratello!”
«Venticinque» rispose stizzita, osservandolo con un lampo di sfida nello sguardo. Gli occhi del fratello di solito brillavano della stessa luce, ma questa volta no, questa volta sembrarono diventare ancora più tristi.
«Dieci più di te? Non è possibile, lo sai, vero?»
Maryl spalancò gli occhi, stupida. Layon aveva ragione, naturalmente, come poteva ricordarsi della sua nascita se lui era nato dieci anni prima.
«M-mi sarò sbagliata…» balbettò «Ricordavo la nascita di un altro bambino… magari un vicino…»
“La testa… che male…”
In quel momento avrebbe avuto bisogno di un’aspirina, la testa le stava scoppiando.
«No… era la mia…»
«Ma non è possibile» ringhiò lei
«Forse ti sbagli sulla mia età…» rispose lui con voce morbida.
Lei tolse immediatamente la sua mano da quelle di lui, guardandolo con severità.
«Non dire sciocchezze, tu hai venticinque anni!»
«E tu?»
«Quindici!» urlò a pieni polmoni, mentre le lacrime cominciavano a sgorgare dai suoi occhi. Abbassò lo sguardo, osservando la mano che prima era tenuta da Layon. Sgranò gli occhi, arrestando per un secondo anche il flusso delle lacrime.
“Non è… possibile… la mia mano…”
Quella non era la sua mano, non poteva esserlo. Era pallida, più grande di come la ricordava, le dirà erano più tozze e tremava leggermente.
Sentì la stretta di suo fratello sulle spalle, e improvvisamente provò l’istinto di mettersi a urlare e fuggire. Ma fuggire dove, se i medici non aprivano quella porta?
“Layon però è entrato…”
«Dimmi come sei entrato!» gli intimò, allontanandosi bruscamente da lui «Voglio andarmene da qui!»
«Non sono entrato» rispose lui con un sospiro «Non sono mai uscito»
Lei lo fisso come se fosse improvvisamente impazzito. Certo che era uscito! Era sicura di non averlo visto nella stanza, e non c’era alcun luogo dove lui potesse nascondersi. La stava prendendo in giro, non c’era altra spiegazione. Era uno scherzo crudele.
«Smettila…» disse, ricominciando a piangere
Layon si alzò, tornando da lei, tornando ad afferrarle le spalle, guardandola negli occhi.
«Sono venticinque anni che sei qui» le disse, in un sussurro. Maryl sentì una sferzata d’aria gelida sul volto, anche se in quella stanza non esistevano finestre da cui potesse entrare il vento.
Si sentiva frustrata, istintivamente portò una mano sul capo, e fu come una nuova sferzata di dolore. Al posto dei morbidi capelli lisci e lucenti che l’avevano sempre accompagnata, adesso la sua mano toccava radi capelli stopposi e viscidi. Che cosa le stava succedendo?
Chiuse gli occhi, mentre la stretta del fratello si faceva sempre più debole.
E improvvisamente ricordò…
Le grida di suo fratello nella culla, il sangue sulle pareti, il pianto dei suoi genitori, il coltello tra le sue mani, e il silenzio che ne era seguito. Suo fratello non urlava più, non poteva più farlo, non poteva più disturbarla, non l’avrebbe più tenuta sveglia la notte. Voleva solo quello: un po’ di silenzio. Era da biasimare per questo?
«Quanti anni ho?» chiese in un sussurro, riaprendo gli occhi.
«Quaranta»
Maryl non disse altro, le sue gambe erano diventate improvvisamente deboli, e lei si lasciò cadere al suolo, lo sguardo fisso su di lui.
«In effetti non sono un tipo pieno di immaginazione» le disse, con un lieve sorriso triste «Forse lo sarei stato…» aggiunse.
Maryl lo osservò. Soffermò lo sguardo sul volto delicato e gentile, sui muscoli che premevano sotto la stoffa della maglietta, sui soffici capelli dorati -ma tutti in famiglia li avevano neri-, sugli occhi color del mare che la osservavano -qualcuno nella sua famiglia aveva mai avuto gli occhi azzurri?
«Mi dispiace…» disse solo, lo disse così piano che nemmeno lei stessa udì la sua voce, ma suo fratello sorrise.
Maryl abbassò lo sguardo al suolo, sentendosi improvvisamente stanca, vecchia.
Vuota.
Dai suoi occhi non sgorgavano più lacrime, il suo viso era asciutto. Lei vi portò una mano, scoprendo rughe che prima non aveva notato.
Rialzò lo sguardo, solo per accorgersi che suo fratello non c’era più. Non ci sarebbe mai più stato.
Con un gemito, si rannicchiò a terra.

Le pareti bianche della stanza la soffocavano, togliendole il respiro. Odiava quella stanza, odiava quel bianco sgargiante che la accecava, odiava il freddo pavimento di pietra su cui era sdraiata.

Pioggia e fuoco

Pubblicato: Maggio 3, 2014 in Drammatico

Un rumore incessante, continuo…tremendamente fastidioso. Pic. Pic. Pic. Goccia su goccia. Pic. Pic. Bailey odia il rumore della pioggia sul vetro, le ricorda quel giorno…si ricorda di lei stessa bambina, seduta sul tappeto con le sue bambole. Ricorda lo zio Angus, trafelato e in un bagno di sudore, che entra in camera e la guarda con due occhi vuoti e persi. Quando ci ripensa, le sembra di aver indovinato cosa lui volesse dirle ancor prima di sentirlo, era come se i suoi occhi avessero parlato al posto suo…c’era tutta la disperazione del mondo in quello sguardo spento e vuoto, erano gli occhi di una bambola. Gli stessi occhi che da quel giorno hanno costellato anche il suo bel viso infantile, e non l’hanno abbandonata nemmeno durante l’adolescenza. Cerca di dimenticare, ecco tutto, e a volte ci riesce, ma non quando piove. No. Quando sente il rumore della pioggia quel giorno torna a tormentarla, e lei sente il dolore insinuarsi nelle sue viscere come un coltello arroventato.
“Piccola…io…c’è una cosa che ti devo dire…ecco…si tratta della mamma…” una lieve pausa aveva interrotto le parole dello zio, e lei aveva troppa paura di chiedergli di continuare, quindi era rimasta in silenzio, aspettando che lui ritrovasse il fiato.
“C’è stato un incidente”
Che frase banale. Sua madre era morta: fuori pioveva, lei guidava troppo forte, probabilmente aveva anche bevuto troppo (non ricorda di aver mai visto sua madre senza una bottiglia, in fondo se l’ha chiamata Bailey c’è un motivo)…e così era andata a sbattere contro un albero, morendo sul colpo.
C’è stato un incidente…
Da quel giorno per Bailey è iniziato l’incubo, nonostante le insistenti richieste non le era stato possibile andare ad abitare con zio Angus, così era andata a stare da suo padre. All’epoca lo odiava, credeva fosse colpa sua se lei aveva passato l’infanzia senza un padre.
Istintivamente serra la mano destra, guardando fuori dal finestrino dell’auto, per quel che la pioggia le permette. Si trova su un sudicio taxi, in una strada dissestata, diretta chissà dove. Se avesse un minimo di buon senso chiederebbe all’autista di fermarsi e scenderebbe, ma lei non ne ha, nemmeno un briciolo. In compenso ha tanta curiosità, vuole colmare le lacune relative a sua madre, vuole capire…e se per vedere l’unica persona in grado di dirle la verità deve fare un viaggio del genere…bhè, lo farà!
Appoggia la testa contro il sedile e chiude gli occhi, lasciando che la mente sia di nuovo preda dei ricordi, il coltello torna a farsi sentire contro la sua carne, ma lei sorride appena, inizia ad abituarsi al dolore, inizia a trovarlo piacevole, esclusivo. Lei è diversa dai suoi coetanei, questo dolore la rende diversa, e la cosa le crea sempre una sorta di perverso piacere.
Ha vent’anni, ma le sembra di averne vissuti ben pochi, ha passato l’infanzia a cercare di destreggiarsi con una madre alcolizzata, e l’adolescenza a convivere con un padre che odiava per sbaglio, uno sbaglio che lui ha provveduto a chiarire solo quando lei ha compiuto diciotto anni; neppure quei due anni restanti sono stati però fonte di una qualche felicità, o anche solo di una qualche occasione di vivere sul serio. Al contrario, sono stati due anni di ricerche incessanti, fino a trovare finalmente quel nome, il nome tracciato con una calligrafia sporca sul foglietto che ora stringe in pugno, in un gesto quasi di trionfo.
Il taxi sobbalza nuovamente, e lei si sente spinta verso il sedile di fronte, ma fortunatamente riesce a fermarsi prima di colpirlo, dovrebbe imparare a usare le cinture di sicurezza, ma non è abituata, e d’altronde odia qualsiasi forma di costrizione fisica: le cinture di sicurezza per lei lo sono, le limitano i movimenti. La voce del tassista la desta dai suoi pensieri: “Siamo arrivati, signorina”.
Bailey alza lo sguardo sulla grande costruzione che la sovrasta, sembra quasi un castello, invece si tratta della dimora di una donna sola, almeno stando a quello che le ha detto suo padre, ma certo le sue informazioni possono non essere aggiornate, dato che non è stato in grado di darle il suo indirizzo. Con un finto sorriso di circostanza la ragazza paga il tassista per il disturbo e scende dalla vettura, fermandosi davanti al portone.
E adesso? Ha avuto due anni di tempo per pensare a cosa dirle, dopo averla trovata, ma si rende conto di non essersi preparata alcun discorso. Lentamente la mano destra afferra il ciondolo che porta al collo, l’unico ricordo che ha di sua madre, era suo e alla sua morte lei l’ha tenuto, mentre a zio Angus è rimasto tutto il resto; è uno di quei ciondoli che si aprono, per poter contenere delle foto, ed infatti lei lo apre, con trepidazione, come se non conoscesse il contenuto, in verità ha sempre saputo quale foto si trova all’interno, ma solo recentemente ne ha scoperto il vero significato. La foto rappresenta sua madre, giovane, quando ancora era all’interno delle forze di Polizia e non aveva iniziato a bere, accanto a lei si trova una ragazza bionda, anch’ella in divisa. Lo sguardo della giovane si fissa in particolare su quest’ultima: zio Angus le aveva sempre detto che si trattava della partner della mamma, mentre la madre si limitava a scuotere il capo e a mormorare qualcosa che lei non aveva mai afferrato. Ad ogni modo entrambi ne parlavano poco, e per questo Bailey si era fatta l’idea che fosse morta, magari in servizio; per anni aveva portato la sua fotografia appesa al collo credendo di commemorare, in qualche modo, la memoria di un’amica di sua madre, oltre a quella della madre stessa. Due anni fa, invece, suo padre si è finalmente deciso a spiegarle come stanno davvero le cose. La ragazza bionda, dallo sguardo freddo e dal fisico asciutto, non era semplicemente un’amica di sua madre…e non è morta, affatto. Loro due avevano avuto una relazione, quando entrambe facevano parte della polizia, ma sua madre aveva scelto una vita normale, aveva scelto di fingere, e così si era fidanzata con Robert, suo padre. La madre si era decisa a dirlo a Robert solo dopo alcuni anni di matrimonio, e lui non aveva mai avuto il coraggio di rivelarlo a Bailey, forse per paura che lei potesse non capire. Bailey sospira ancora, stringendo tra le mani quel foglietto ormai bagnato dalla pioggia. Da quel giorno quella donna aveva evitato sua madre come un’appestata, per questo lei aveva lasciato la polizia, per questo aveva cominciato a bere… fino a quel tragico incidente. E finalmente suo padre si è deciso a parlare.
Bailey ha così compreso che sua madre aveva un intero mondo, dentro di sé, che non le ha mai svelato, che, forse, non ha svelato neanche ad Angus. Ma suo padre le ha fornito qualcosa a cui aggrapparsi: il nome di quella donna. Non sa altro, solo il suo nome…neanche lui conosce i segreti che hanno condiviso le due donne, durante il loro mandato, non sa tutta la loro storia. Quella donna che vive da sola, in quell’enorme casa, è l’unica che può darle risposte; ed ora la ragazza si trova davanti al suo portone, e non sa cosa fare.
La pioggia continua a scorrere, bagnandole il viso ed il corpo. Finirà per prendersi un raffreddore, ne è sicura. Ha paura. Troppa paura di scoprire cose spiacevoli, cose che, magari, sua madre avrebbe preferito seppellire per sempre.
Con calma bussa alla porta del casa, con mano tremante e con il cuore in gola.
Passano solo alcuni secondi, ma a lei sembrano giorni, mesi, anni. Poi finalmente la porta si apre ed un giovane dal volto scarno incorniciato in radi capelli rossi le si para davanti, squadrandola con simpatia.
“Buonasera, posso fare qualcosa per lei?”
“Io… sì… ecco… cercavo…”
Non le sembra appropriato estrarre il foglietto in quel momento; così, col cuore in gola, cerca di ricordare quel nome tanto importante.
“Patrice… Spenser?”
C’è una nota interrogativa nella sua voce tremante, ha paura di aver sbagliato il cognome, e si chiede chi sia quel giovane dall’aspetto tanto simpatico.
“Spenner” la corregge il ragazzo, con un sorriso cordiale “Patrice Spenner”
Non c’è alcuna nota di rimprovero nella voce del giovane, ma la ragazza si sente comunque sprofondare per la vergogna.
“Sì… scusa… io… ecco… vorrei parlarle. E’ tua amica?” domanda quindi, le gote tinte di rosso.
Il volto del giovane pare rabbuiarsi per qualche secondo, ma subito il consueto sorriso luminoso torna a rischiararlo.
“Era mia zia” risponde quindi, cercando di mascherare la tristezza impressa nella sua voce.
Gli occhi di Bailey si aprono di scatto, quasi spaventati.
No… non può essere…
“Come era?” domanda con ansia, ma sa la risposta anche prima che il ragazzo la formuli.
“… è morta” dice infatti lui, abbassando appena il capo.
“C-come è successo?” domanda la giovane, mentre le lacrime cominciano a sgorgare dai suoi occhi, mescolandosi con la pioggia .
Il giovane alza le spalle, e l’ombra di tristezza torna ad avvolgerlo, ma questa volta non fa niente per mascherarlo.
“Si è suicidata… l’ho trovata io stesso. Gas” risponde piano, il tono posato, la voce bassa, quasi si trattasse di un segreto da conservare. In realtà non è un segreto, lo sanno tutti, lì intorno: le voci girano sempre molto in fretta, soprattutto quelle brutte.
“Ma… perché?” domanda Bailey, col cuore in gola.
“Entra…” dice il giovane, spostandosi per permetterle di varcare la soglia. La ragazza acconsente, muovendo pochi passi dentro quella grande casa.
“Vivi qui?”
“Sì, ho ereditato la casa. In effetti ho ereditato quasi tutto, non aveva figli”
“Capisco…”
Forse Patrice non ha mai voluto fingere. E’ questo che pensa la giovane, mentre si guarda attorno, osserva le fotografie di quella donna e cerca di non farsi sommergere dall’onda di devastazione che l’ha colta. Non saprà mai la verità.
“Ecco il perché” dice il ragazzo, facendola voltare. Tra le mani stringe una lettera, che la ragazza squadra con sospetto. Dovrebbe leggerla? In fondo non sono affari suoi, forse dovrebbe semplicemente andarsene.
Ma se lui vuole che la legga…
Con mano tremante la afferra, aprendola e scorgendone rapidamente il contenuto.
Una lettera scritta da suo zio Angus. In cui si annunciava la morte di sua madre.
Il cuore di Bailey mancò qualche battito e lei impallidì, sentendo le forze venir meno. Se non ci fosse stato il braccio del giovane a sorreggerla, probabilmente sarebbe caduta a terra.
“E’ mia madre…” disse con voce strozzata, rispondendo all’occhiata interrogativa che il giovane le aveva lanciato.
Lui annuì appena, sedendosi sul divano.
“L’ho immaginato appena ti ho vista. Mia zia mi ha mostrato parecchie foto di tua madre, e tu le assomigli molto”
Bailey si sedette sulla poltrona, di fronte a lui, squadrandolo con attenzione. Lui sapeva la storia?
“Tu… sai che…” cominciò, titubante, ma subito si fermò. Magari Patrice non l’aveva mai rivelato, che diritto aveva lei di entrare così nella privacy di una persona ormai morta?
“Che stavano insieme?” il giovane concluse la domanda al posto suo “Sì, lo so. La loro storia era l’argomento preferito della zia” disse, ridendo brevemente al ricordo.
“Spesso mi faceva sedere sulla poltrona su cui ti sei accomodata, lei si sistemava su questo divano, accendeva il fuoco nel camino e cominciava a raccontare…” sorrise appena, voltando lo sguardo verso il camino spento “… in effetti non fatico a comprendere la sua reazione, quando ha saputo dell’incidente…”
Bailey era emozionata, ma allo stesso tempo timorosa. Se davvero quel ragazzo sapeva tutto, forse poteva raccontare qualcosa anche a lei, renderla partecipe di una parte di sua madre che non aveva mai conosciuto. Ma come chiederlo?
Non ce ne fu bisogno. Il giovane le sorrise, sporgendosi appena per darle un buffetto sul ginocchio.
“Tua madre non ti ha detto niente, eh?” domandò, con tono comprensivo.
La giovane annuì appena, abbassando lo sguardo sul pavimento. C’erano così tante cose che non sapeva di sua madre, troppi buchi sulla sua vita.
“Allora…” disse il giovane.
Con un gesto rapido, si alzò dal divano. Bailey lo osservò, incapace di comprendere le sue intenzioni. Il ragazzo posò della legna nel camino e lo accese, ravvivando la fiamma.
“Questo salotto ascolterà ancora una volta tutta la storia”
Lui tornò a sedersi, mentre il fuoco del camino illuminava il sorriso di Bailey e spazzava via il buio.

Pene di gioventù

Pubblicato: marzo 21, 2014 in Altro

27 Settembre 2013 ore 16:00

 

Il fumo della sigaretta volava nell’aria, disegnando svariati arabeschi che Amanda osservava pigramente. L’autobus era in ritardo, di nuovo. Con uno sbuffo cacciò fuori dalla bocca tutto il fumo che era rimasto, e lasciò scivolare il mozzicone di sigaretta a terra, senza curarsi delle occhiatacce di chi sostava con lei sulla pensilina. In quel momento l’autobus girò l’angolo, rendendosi visibile alla ragazza, che non potè trattenere un sorriso di gioia.

“Finalmente!” disse, rilassando i muscoli del corpo. Era stata una giornata pesante e non vedeva l’ora di tornare a casa e rilassarsi, sempre che Francesca non avesse avuto la brillante idea di portare a casa uno dei suoi ragazzi, in quel caso la pace sarebbe finita per sempre.

Lentamente salì sull’autobus, e si sistemò in un posto libero vicino al finestrino, le porte del mezzo si richiusero e l’autobus proseguì la sua corsa. Amanda estrasse dalla tasca dello zaino il suo inseparabile lettore mp3, e per qualche minuto il mondo intero scomparve, c’erano solo lei e la musica che le entrava fin dentro alle vene.

Preda di quel relax si permise di far vagare la mente tra i mille pensieri di quella giornata, a breve avrebbe dovuto sostenere un nuovo esame, e ancora doveva iniziare a studiare… doveva darsi da fare, se non voleva che i suoi genitori la rispedissero a casa, già avevano minacciato di farlo.

Ormai era passato un anno da quando aveva deciso di iscriversi all’Università, aveva deciso di trasferirsi insieme alla sua migliore amica, e per fortuna erano riuscite a trovare due camere in un appartamento dove già risiedeva un’altra ragazza. Un sorriso apparve sulle labbra di Amanda: e che ragazza! Il sorriso si trasformò in una smorfia, come succedeva sempre quando si ricordava che Francesca era etero e che quindi lei non avrebbe mai avuto nessuna possibilità. Certo, c’era anche il trascurabile dettaglio della fidanzata di Amanda, ma la giovane non riteneva che quello fosse un problema.

Preda dei suoi pensieri, non si accorse che l’autobus si era fermato.

“Una fermata è andata…” disse, sospirando appena. Ancora una e sarebbe arrivata a casa.

In quel momento la sua attenzione fu catturata da un’anziana signora, appena salita. Si guardava attorno, tremando sulle gambe malferme, ma tutti i posti erano occupati, parecchia gente era già in piedi. Lo sguardo della vecchietta cadde su Amanda, e la giovane si voltò dall’altra parte, fingendo di non averla vista. Non bastò. L’anziana signora si incamminò verso di lei con sguardo fiero, e, dopo averla raggiunta, le picchiettò gentilmente su una spalla.

“Giovanotta, le andrebbe di far sedere una povera signora? Sa, le mie gambe non sono più quelle di una volta…”

Amanda si voltò, sbuffando leggermente.

“Senta, manca una fermata e sono arrivata, dopo potrà prendere il mio posto, se lo desidera”

L’anziana signora sbattè gli occhi un paio di volte, sorpresa.

“Ma se è solo una fermata, può tranquillamente restare in piedi… io sono anziana…”

“La colpa non è certo mia” rispose con tono seccato la ragazza, chiudendo la questione. La povera signora dunque si allontanò, borbottando qualcosa tra i denti.

Se Amanda avesse potuto sentire ciò che stava dicendo, forse si sarebbe affrettata a scusarsi e a cederle il posto.

 

27 Settembre 2013 ore 19:00

 

Amanda si svegliò dal suo sonnellino, guardandosi intorno e riconoscendo il mobilio della sua camera, nonostante le scarse capacità logiche del risveglio. Si stirò appena, scalciando le coperte e costringendosi a uscire dal loro torpore, in quel momento sentì uno strano fastidio all’altezza dell’inguine. Vi portò la mano per potersi sistemare meglio i pantaloni della tuta, e subito spalancò gli occhi, terrorizzata. Non era possibile.

La ragazza spostò lo sguardo verso il basso e, con foga, si tirò giù calzoni e mutandine, lasciando la sua intimità allo scoperto. La sua intimità…

 

Un gridò squarciò il silenzio di quella palazzina.

“Ma che cazz-” Simona corse nella stanza di Amanda, per cercare di capire cosa fosse successo, ma subito rimase pietrificata a guardare l’amica. I suoi occhi spalancati erano fissi sulle grazie della giovane.

“Amanda… quello è…”

“Sì…sì! Non so come sia possibile! Ho un… un…”

In quel momento anche Francesca fece la sua apparizione all’interno della stanza, scrutando l’amica con sguardo curioso.

“Un pene!” disse, spalancando gli occhi e indicando la protuberanza che aveva sostituito le delicate forme di Amanda.

“Come mai hai un pene?” domandò quindi, con disarmante innocenza. Amanda si lasciò cadere sul letto, tenendo lo sguardo fisso sul suo nuovo amico.

“Io… non lo so…” rispose, come in trance. Doveva esserci una spiegazione… di sicuro non era una sua allucinazione, dal momento che anche Simona e Francesca riuscivano a vederlo. Allora cosa? All’improvviso si ricordò di quanto era successo il giorno prima.

“Ma certo!” disse, alzando lo sguardo verso le due amiche “E’ stata la vecchietta di ieri! Non le ho ceduto il posto in autobus e lei…”

“E lei ti ha lanciato contro un sortilegio” completò Simona con aria sarcastica. “Oh, avanti, Amy, siamo nel 2013 e tu credi ancora ai sortilegi? Ti pare che una vecchina vada in giro a lanciare incantesimi?”

Amanda la guardò con uno sguardo carico d’odio. “E invece ti sembra normale che una si svegli con un pene?!”

“Bhe… in effetti tanto normale non è…” una piccola pausa accompagnò le parole di Simona “Ma sono sicura che c’è una spiegazione scientifica!”

Francesca intanto continuava a guardare il nuovo accessorio di Amanda, piena di curiosità. Non appena la giovane se ne accorse, subito arrossì, alzandosi in piedi e coprendosi.

“Non guardarmi!” disse quindi, imbarazzata.

Francesca le sorrise “Ma funziona proprio come quello di un uomo?”

“Non lo so… e non lo voglio nemmeno sapere!”

In quel momento una sensazione ben nota le attanagliò la vescica, era uno stimolo semplice, che le persone imparano a conoscere fin dai primi anni di vita, ma questa volta gettò Amanda nel panico.

Come una scheggia si diresse verso il bagno, lasciando attonite le altre due ragazze.

La giovane alzò la tavoletta del wc, per poi fare un lungo respiro.

“Ok, dovrebbe essere facile, se ci riescono i ragazzi… basta mirare, no? E’ un po’ come uno sparatutto…”

 

Nel frattempo Simona e Francesca aspettavano l’amica, sedute sul divano in salotto.

“Come pensi sia successo?” domandò Francesca alla mora.

“Non ne ho idea… ma mi rifiuto di credere che si tratti di un sortilegio! Forse è una qualche malattia genetica…”

“E’ contagiosa?” domandò Francesca, allarmata all’idea di trovarsi anche lei una protuberanza non gradita, che avrebbe fatto scappare tutti gli uomini.

“Se è genetica non lo so” rispose l’altra alzando le spalle “Devo informarmi…”

Entrambe spostarono lo sguardo verso il bagno, da cui non sembrava provenire alcun suono.

“Dici che se la sta cavando bene?”

“Bhe… non dovrebbe essere così difficile… credo”

La porta del bagno si aprì, e Amanda ne uscì trionfante.

“Bene, e questa difficoltà è superata” disse, con un sospiro sollevato “Per fortuna sono un asso dei videogame…” la sua gioia scomparve in un solo istante “Ma questo non risolve il problema più grosso! Come faccio con questo… coso?!”

si avvicinò alle ragazze, lasciandosi cadere sul divano vicino a loro.

“Nessuna ragazza vorrà avere a che fare con me, ora!”

Simona la guardò perplessa

“Bhe, veramente alla maggior parte delle ragazze quello piace…”

“Sì, ma attaccato a un uomo!”

“Bhe ma adesso è come se fosse così, no?” intervenne Francesca, inclinando appena la testa di lato “Sei un uomo con le tette”

La frase lasciò le due amiche completamente basite. Simona aprì la bocca per dire qualcosa, ma subito la richiuse e si alzò, allontanandosi.

“Vado in biblioteca a cercare informazioni su questo strano fenomeno”

Amanda continuava a fissare Francesca, senza che l’altra riuscisse a capire il perché di quello sguardo arrabbiato.

“Non dire mai più quella cosa”

“Bhe, ma…”

“Sono una donna con il pene, non un uomo con le tette!”

“Va bene… non ti arrabbiare… volevo solo consolarti”

Cercando di trattenere la rabbia, Amanda si alzò, uscendo dall’appartamento e sbattendo la porta con un tonfo. Non si era mai sentita così infuriata in vita sua… tutta la sua esistenza era stata appena ribaltata. Era ancora sotto shock all’idea di dover condividere tutta la sua vita con quel coso ingombrante… e che cosa facevano le sue due più care amiche? Una si chiudeva in biblioteca alla ricerca di chissà quali informazioni, l’altra ironizzava sulla cosa, come se svegliarsi con un pene fosse una cosa da nulla!

Amanda lanciò una veloce occhiata all’orologio, Simona non avrebbe potuto fare le sue ricerche ancora a lungo, entro un’ora la biblioteca avrebbe chiuso, aveva giusto il tempo di prendere qualche volume. La ragazza sbuffò, forse doveva tornare indietro e cenare con loro… che cosa avrebbe potuto risolvere passeggiando per le strade a quell’ora, da sola?

Scosse appena la testa, incupendosi in uno sguardo ostinato. No. Avevano mostrato una totale mancanza di sensibilità e, per questo, non avrebbero avuto l’onore di averla a tavola!

 

28 Settembre 2013 ore 01:00

 

Era ormai notte fonda quando Amanda si decise a tornare a casa. Cercando di fare meno rumore possibile, aprì la porta di casa, per poi scivolare all’interno dell’appartamento. Non accese la luce, per non rischiare di svegliare le coinquiline, e proseguì al buio fino alla porta della sua camera, per poi aprirla. Una volta dentro si sedette sul letto, pensierosa.

Simona pensava che fosse ridicolo credere ai sortilegi, ma Amanda era sicura che non poteva essere nulla di diverso. Diamine, quale malattia fa crescere peni? E’ assurdo!

Si nascose il viso tra le mani e piccole lacrime iniziarono a solcare le sue guance pallide. Che cosa avrebbe fatto, adesso?

Si lasciò cadere sul letto e strinse il cuscino, bagnandolo di lacrime; pianse finché, ormai sfinita, riuscì ad addormentarsi.

 

* * *

 

Dove si trovava? Amanda non lo sapeva, intorno a lei vedeva solo il nero, era come trovarsi sospesa nel vuoto, in una stanza dalle pareti completamente scure. Si guardò intorno, finché non riuscì a vedere una luce in quel mare di oscurità. Perplessa, cercò di camminare verso quella luce, che le sembrava sempre più potente, mentre i secondi passavano.

All’improvviso quel bianco luminoso sembrò allargarsi a dismisura, fino ad inglobarla, Amanda chiuse gli occhi, per proteggerli, e quando li riaprì, davanti a lei stava la vecchietta dell’autobus.

“Tu!” disse subito, puntandole un dito contro “E’ colpa tua se adesso ho un pene!”

L’anziana signora sorrise appena, scuotendo la testa in segno negativo

“No, è colpa tua…” le rispose, senza perdere il sorriso.

“Perché non ti ho ceduto un posto sull’autobus merito un pene?!”

L’anziana signora scosse la testa ancora una volta

“Non si tratta di quello. Ti tengo d’occhio da un po’ di tempo, sei sempre stata incentrata su te stessa, non hai mai avuto voglia di pensare agli altri. Era tempo di darti una lezione”

Amanda sospirò appena, continuando a guardarla.

“E cosa dovrei fare per far sparire questo coso?”

“Semplice… imparare a pensare un po’ anche agli altri, oltre che a te stessa”

Il lampo di luce tornò, forte com’era stato all’inizio, poi di nuovo il buio…

 

* * *

 

Amanda si svegliò con uno scatto, sudata e con una sensazione di calore opprimente addosso. Si guardò intorno, distinguendo nella penombra i mobili e gli oggetti che caratterizzavano la sua stanza. Era stato un sogno… tutto un sogno. Immediatamente, con un sorriso radioso, portò una mano tra le gambe, e subito il sorriso scomparve. No, non tutto era stato un sogno. Con un lieve grugnito tornò a sdraiarsi, ripensando alla vecchietta e a ciò che le aveva detto. Probabilmente l’anziana signora era entrata nei suoi sogni per indicarle la via di cura. La ragazza osservò l’orologio posto sul comodino, sospirando appena, era troppo tardi per svegliare Simona e Francesca e chiedere loro un consiglio.

Devi imparare a pensare un po’ anche agli altri, oltre che a te stessa.

Le parole dell’anziana signora -una strega, probabilmente- le danzavano ancora nella mente, non concedendole un solo istante di tregua. A lei non sembrava affatto di essere così egoista come quella tizia voleva farle credere; le erano sembrate molto più egoiste le sue amiche, allora perché anche a loro non veniva regalato un accessorio come il suo?

Chiuse gli occhi, cercando di trattenere le lacrime che minacciavano di sgorgare ancora una volta.

 

5 Ottobre 2013 ore 14:00

Una cosa va detta, Amanda cercò di impegnarsi seriamente per sconfiggere la maledizione: cominciò a fare volontariato, donò dei soldi a diverse associazioni benefiche, cominciò a lasciare il posto alle persone anziane sui mezzi pubblici… eppure il suo ingombrante amico non voleva saperne di andarsene.

Più cose lei faceva, meno sembrava che il pene avesse intenzione di cambiare residenza…

 

“Sono a casa!” urlò Amanda, aprendo la porta dell’appartamento e muovendo qualche passo sulle linde piastrelle “C’è nessuno?”

Per qualche secondo non udì niente, poi finalmente giunse una risposta.

“Sì! Vieni!”

Amanda sbuffò appena, Francesca era in casa, ma Simona non sembrava presente: nell’arco di quei pochi giorni, la ragazza aveva svolto altre ricerche, e la povera sfortunata era ansiosa di conoscerne l’esito, anche se nutriva ben poche speranze. Era sicura che quel pene fosse davvero frutto di un sortilegio, e non una qualche strana malattia, Simona non avrebbe trovato niente, ma tanto valeva cercare.

Con lentezza si diresse verso la camera della bionda coinquilina, strusciando le scarpe sul lindo pavimento, preda dello sconforto più grande.

“Che vuoi, Fra-”

La voce le morì in gola. La sua cara coinquilina era seduta sul letto, con addosso solo dell’intimo leopardato. Amanda fu costretta a raccogliere la mascella dal pavimento.

“Ti stavo aspettando Am”

La ragazza non disse nulla, limitandosi ad annuire appena, gli occhi persi nella contemplazione delle forme dell’amica. Qualcosa non quadrava… Francesca era etero, lo era sempre stata, possibile che avesse cambiato orientamento di botto?

Sei un uomo con le tette

Le parole dell’amica rimbombarono nella sua testa, e in quel momento tutto le fu chiaro.

“F-Francesca” farfugliò, mentre l’altra le faceva segno di avvicinarsi “G-guarda che sono sempre una donna!”

Sei un uomo con le tette

Francesca non rispose, solo si alzò e si avvicinò all’amica, prendendola per le braccia.

“Hai un pene, è sufficiente” rise, e la sua risata cristallina subito riempì l’aria di quella piccola camera.

Amanda avrebbe voluto ribattere, lei si sentiva sempre donna, in fondo! Ma le mancava la forza, e forse anche la volontà… perché intavolare una discussione sul suo effettivo status? Aveva sempre desiderato Francesca e ora…

Sei un uomo con le tette

Si lasciò condurre fino al letto, quindi spogliò la bionda con pochi e semplici gesti e restò a contemplare le sue forme. Estrasse il suo nuovo amichetto dai pantaloni, ma decise di non spogliarsi, se l’avesse fatto il suo corpo femminile avrebbe potuto far tornare Francesca alla realtà…

“Hey, spogliati anche tu! Le tette sono belle, sono morbide!”

… come non detto.

Avrebbe scoperto se davvero il suo pene funzionava come quello degli uomini, quindi. Sotto certi punti di vista la cosa non la entusiasmava, sotto altri la eccitava, era comunque un’esperienza nuova. Probabilmente Francesca stava pensando la stessa cosa.

Con calma si sistemò tra le sue gambe e scivolò dentro di lei, chiudendo gli occhi per assaporare ogni nuova emozione. Ok, doveva ammetterlo, avere una chiave di ciccia invece che di plastica aveva i suoi vantaggi…

 

 

10 Ottobre 2013 ore 16:00

Ormai Amanda si era completamente ambientata col suo nuovo amico, bastava solo farci l’abitudine. Come previsto, Simona non aveva trovato niente sui suoi amati libri, ma la cosa non la turbava più. Ormai era diventata una maestra nell’arte di mirare alla tavoletta ed il sesso con Francesca era fantastico; l’unico problema era sorto quando la sua ragazza l’aveva beccata, ma, in fondo, non era successo niente di male, aveva pensato che quella protuberanza fosse una moderna cinta, le aveva urlato contro che era una stronza, e se n’era andata sbattendo la porta. Non che ad Amanda importasse molto, tanto comunque non se la sarebbe più portata a letto, ora che non aveva più la sua compagna di giochi.

Peccato solo che il suo nuovo amico fosse così appiccicoso, ma certo non poteva pretendere tutto dalla vita.

 

Con tranquillità, si diresse verso la fermata dell’autobus, che, incredibilmente, era in orario, pronto ad accoglierla.

Salì a bordo e timbrò il biglietto, per poi prendere posto nell’unica sedia disponibile. Sospirò appena e sistemò meglio la cuffia destra nell’orecchio, chiudendo gli occhi e posando la testa contro il finestrino.

Si assopì, ma fu svegliata da una mano sulla spalla, che la scuoteva senza sosta.

“Cosa… che c’è?” farfugliò, aprendo gli occhi.

Al suo fianco, c’era la vecchietta dell’autobus, quella vecchia strega.

“Tu?!” si chiese se si trattasse ancora una volta di un sogno, ma in quel momento la vecchina schioccò le dita, uno sguardo severo impresso sul suo anziano volto.

Istintivamente lo sguardo di Amanda si diresse verso il basso… era sparito!

“No” disse, con voce strozzata. No, no, no! Non doveva toglierglielo in quel momento! Doveva farlo prima, o non farlo affatto… non certo mentre grazie a quello si portava a letto Francesca!

“Ma… perché?” domandò alla donna, che, in risposta, si limitò a scuotere il capo.

“Allora le buone azioni sono servite…” disse Amanda, con voce flebile.

Un colpo alla testa la costrinse a rialzare gli occhi sulla sua interlocutrice, che adesso aveva in mano un ventaglio logoro che mulinava come uno spadone medievale.

“Ma quali buone azioni?!” disse la vecchietta, sputando saliva sulla borsa della ragazza, carica di libri “Il volontariato? Le donazioni? Quelle le hai fatte solo per avere qualcosa in cambio! In compenso quando Francesca ti si è offerta non hai detto di no, anche se avevi già una ragazza, non hai affatto imparato ad essere meno egoista, anzi!”

Amanda sbatté gli occhi un paio di volte, osservandola.

“E allora perché l’hai tolto?” domandò, la voce ridotta a un gemito.

“Te l’ho dato come punizione, non per giocarci! Volevo che imparassi ad essere una persona migliore, e invece ti ho solo messo in mano un altro giocattolo!”

“Bhe… più che altro l’hai messo in mano a Francesca…”

Un nuovo colpo da parte del ventaglio la convinse a stare in silenzio.

“Taci, ragazzina!” la vecchietta sbuffò appena, sconsolata “Un tempo una ragazzina ridotta così si sarebbe disperata, avrebbe pianto pensando di non poter più trovare un marito, avrebbe compreso i suoi errori e chiesto sinceramente perdono, e alla fine si sarebbe convertita alla bontà”

Amanda le lanciò uno sguardo scettico, ma rimase in silenzio, per paura del ventaglio.

La vecchietta sospirò ancora.

“Maledetto femminismo” grugnì, quindi si diresse con passo sconsolato verso l’uscita dell’autobus, che nel frattempo aveva raggiunto una nuova fermata.

Amanda la osservò allontanarsi, quindi lanciò un ultimo sguardo tra le sue gambe.

“Bentornata amica” disse, sospirando. Avrebbe dovuto rinunciare a Francesca, ma, in fondo, poteva sempre trovarne altre, magari anche recuperare quella fessa della sua ex.

Appoggiò nuovamente la testa contro il vetro, guardando il cielo sopra di lei.

Le nuvole promettevano pioggia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mi dispiace

Pubblicato: marzo 6, 2014 in Drammatico
 
Una cascata, il rumore dell’acqua di sottofondo, tutto crea una musica piacevole e tranquilla, che nel suo cuore ferito suona come una cacofonia di rumori molesti.
“Mi dispiace”
Le sente quelle parole, le ascolta, ma non riescono a penetrare nel profondo del suo cuore. E’ seduta su una panchina, verde come il prato che la circonda.
“Ricominciamo da capo?”
Anche questa domanda passa attraverso la sua testa, senza tuttavia lasciare una traccia. Non è facile, non lo è per niente. E’ stata ferita, in profondità; se si ferma a pensarci non riesce nemmeno a capire come può essere ancora viva, con un dolore simile.
Ricominciamo da capo…
Come se la vita si potesse azzerare, come se si potessero dimenticare gli attimi che la contraddistinguono, come se fosse possibile cancellare ciò che ci fa male, come file molesti dal computer. No, non funziona così, la mente umana non è un computer, e lei non riesce a cancellare nulla.
“Dimmi che mi ami”
Scuote appena la testa, mentre le frasi dell’altra si fanno più incalzanti, e forse anche più stupide. Come potrebbe dirglielo? Oh, sì, lei la ama, così tanto che fa male, e gliel’ha detto, così tante volte che quasi ha perso la voce…ma perché dirglielo ora? E’ lei che l’ha ferita, al limite dovrebbe essere lei a dirlo, a rassicurarla, se davvero vuole ricominciare da capo. Ma sa che ormai sarebbe troppo tardi.
“Mi dispiace…”
Lo ripete, come se potesse servire a qualcosa. Elisa posa il cellulare sulla lucida superficie della panchina, e la voce si fa più flebile, fin quasi a scomparire. Un brusio in lontananza. Sa che sta ancora parlando, ma non la può più sentire, non la vuole più sentire.
Con calma abbassa lo sguardo sul suo grembo, osserva quel pezzo di ferro appartenente al padre, quello strumento che le fa tanto paura.
No, le faceva paura, perché adesso le sembra un freddo amico che ammicca, invitante.
Sospira appena, mentre il brusio finisce -deve essersi accorta che non sta più ascoltando- ed il rumore della cascata diventa quasi assordante, nel silenzio.
Elisa afferra il gelido oggetto, volta lo sguardo verso la cascata, perdendosi in quell’impetuoso azzurro.
“Dispiace anche a me”
Un piccolo boato, e poi il buio.
Dall’altra parte del telefono, solo un grido.

Le due rose

Pubblicato: marzo 6, 2014 in Drammatico, Rosa

La luce della luna filtra dalla finestra, leggermente aperta, abbastanza da far entrare un filo d’aria che accarezza dolcemente la pelle, portando refrigerio nelle lunghe giornate estive, ma non troppo, perchè il dolce tepore del sole pomeridiano deve restare sulla pelle accesa di rugiada. Io resto in silenzio, ti osservo nel tuo magnifico incedere, mentre varchi quella porta con passo cadenzato, come la più soave regina delle fiabe più belle. Il mio sguardo si fissa su di te, mentre sento la mia voce che si incrina e si ferma, come se qualcuno avesse girato un’invisibile manopola, spegnendola per sempre. Non riesco più ad emettere alcun suono, mentre avverto gli sguardi inquisitori del re e della sua corte su di me, stupiti e attoniti del blocco accorso alle mie parole. Ma non posso spiegare che quando ti sento vicino il mio cuore si blocca, manca dei battiti e arranca come un cavallo zoppo; che le parole mi sembrano improvvisamente prive di significato, perchè nessuna sarà mai abbastanza perfetta da indicare la tua bellezza, mai abbastanza forte per i miei sentimenti.
Resto lì, come una perfetta idiota ad osservare la tua splendida pelle contro cui si riflettono i miei pensieri come sullo specchio più pregiato. Ti vedo appoggiarti al tavolino su cui stiamo lavorando, progettando la difesa a quella guerra a cui dovrò cercare di sottrarti, prima che la tua candida pelle venga sporcata dal rosso scarlatto del sangue pieno di vergogna. Il mio sguardo segue il tuo movimento, fermandosi ad osservare le tue braccia che bianche risplendono alla luce della luna. In questo momento maledico la decisione di tuo padre di fare questa riunione di sera. Forse la luce del sole ti avrebbe creata meno irresistibile, e un abito da giorno ti avrebbe fasciato maggiormente, impedendo al mio sguardo di perdersi tra le pieghe del tuo vestito, che mi trasportano come onde sottili lungo i tuoi fianchi scolpiti. Da lì risalgo con i miei occhi color del ghiaccio, incontrando quei capelli che ti accarezzano la schiena e che vorrei tanto poter toccare. Sono sicura che hanno la morbidezza della seta più fine, la loro lucentezza lo dimostra, risplendono come le ali di un corvo illuminate dal sole. Sospiro e cerco di tornare padrona dei miei pensieri, abbasso lo sguardo sul tavolo per non lasciare che indugi oltre sulla tua figura, mentre la gola riarsa mi impedisce di riprendere la discussione; gli altri soldati prendono la parola, ed io trattengo lo sguardo sul mogano scuro di quel grande tavolo circolare, ma questo non basta ad ignorare la tua presenza, ogni respiro mi porta il tuo dolce profumo, e la tua voce è una melodica tortura per la mia mente.
La luce lunare illumina il tuo vestito, mostra una rosa bianca ricamata sul petto, sorrido e abbasso lo sguardo su quella nera che orna il mio. Ricordi, amore mio? La Rosa Bianca e la Rosa Nera, così ci chiamavano i nostri padri, quando eravamo piccole e giocavamo insieme, quando ancora la classe sociale non ci aveva diviso; ogni notte, quando chiudo gli occhi, rivedo i tuoi abiti svolazzanti, i capelli che seguivano la corsa del vento, i tuoi modi altezzosi che comunque adoravo. Era tutto così bello, così semplice, abbracciarti, baciare le tue guance rosse come mele, ma tutte le cose belle sono destinate a cambiare. Siamo cresciute, ormai divise: tu, una principessa; io, a capo delle guardie reali. Anche senza orologio posso contare i secondi che passano, mi basta ascoltare il battito del mio cuore, ora che sei così vicina; la tua vicinanza è al tempo stesso una gioia e una pena, sei accanto a me ma non posso toccarti, non posso accarezzare quella pelle candida, non posso baciare le tue labbra rosse e piene. Non posso farlo adesso e non potrò farlo mai; mentre tu, mio dolce uccellino, voli splendida nella giovinezza io resto ancorata nella gabbia del mio ruolo, posso solo osservarti in silenzio, ogni giorno, mentre le tue labbra si schiudono e il tuo sorriso si rivela. Posso solo osservare il tuo petto che si alza e si abbassa, al ritmo del tuo respiro, la candida rosa che si mostra in tutta la sua bellezza, mentre a quella scura non resta che chiudersi nel dolore e nella colpa.

E fu la notte

Pubblicato: novembre 29, 2013 in Rosa

“Ciao, io mi chiamo Tessa, e tu?”

Furono proprio queste le prime parole che sentii uscire dalle sue labbra. Era stata una serata monotona, avevo accettato di andare a quella festa solo perché il mio amico aveva insistito tanto. Non mi sono mai piaciute le feste, quella, poi, si svolgeva in una villa, non esattamente il mio genere; comunque dovevo un favore a Davide e così andai.

Mi pentii della mia scelta non appena varcai la soglia di quella lussuosa villa: musica a palla, casse di birra, gente ubriaca, ragazzi che ci provavano, avevo voglia di urlare dalla frustrazione, invece mi limitai a sedermi ad un piccolo tavolo, sistemato per l’occasione. Passai lì la successiva ora, in completa solitudine, dato che Davide aveva abbordato una ragazza ed era sparito, non mi aveva nemmeno presentato il padrone di casa. Le ore erano passate e la notte era giunta, ma del mio amico nessuna traccia.

E poi, all’improvviso, mentre mi rassegnavo all’idea di passare il resto della nottata in compagnia del mio Drambuie, arrivò lei. Lunghi capelli dello stesso colore del fuoco, profondi occhi verdi ed un sorriso disarmante.

“Io… sono Jo” risposi con un lieve sorriso. Lei si sedette sulla sedia vicino alla mia, guardandomi con curiosità.

“Jo? E’ un nome curioso”

Sorrisi, portando il mio bicchiere alle labbra e sorseggiandone il contenuto.

“Mi chiamo Josephine, ma non mi piace, quindi uso il diminutivo”

Mi sorrise di nuovo, e bastò quel semplice gesto a farmi annodare lo stomaco, mentre un forte calore si espandeva lungo tutto il mio corpo.

La desideravo.

Non avevo mai desiderato qualcuno con così tanta forza, volevo sentire il suo corpo perfetto sotto le mie mani, accarezzarle i capelli, annodare le ciocche intorno alle mie dita. Era passato tanto tempo dall’ultima volta che mi ero sentita così, ma mi rendevo conto che non era una reazione normale… insomma, non potevo provarci, così, senza neanche aver prima parlato un po’…

“Jo… sai, mi hai colpito molto, fin dalla prima volta che ti ho visto”

Riportai il mio sguardo su di lei, colpita dalle sue parole, mentre un lieve rossore si faceva strada sulle mie gote.

“Ehm… anche tu…” il mio fu quasi un sussurro, sono sempre stata molto timida e quella conversazione aveva iniziato ad assumere toni surreali.

“Non hai capito…” con lentezza si alzò dalla sedia, porgendomi la mano destra. La afferrai e mi alzai, senza separare mai lo sguardo da quegli occhi splendenti.

“… intendevo che mi hai colpito davvero molto… molto…”

Pendevo letteralmente dalle sue labbra, il desiderio cresceva dentro di me, ogni secondo ardeva di più, mi sentivo bruciare fino alle ossa.

Si girò, senza togliere la mano dalla mia e cominciò a camminare, mentre io la seguivo, docile come un agnellino. Non riuscivo a capire che cosa stava succedendo… forse al piano di sopra, dove Tessa mi stava conducendo, c’erano dei ragazzi in attesa, pronti a picchiarmi e derubarmi, magari quella bellissima ragazza era solo un’esca.

Più mi avvicinavo alla porta della camera da letto della villa, più ero convinta che quell’intuizione fosse quella giusta. Mi fermai, bloccando il suo braccio, e lei si voltò verso di me, un guizzo di sorpresa nei suoi splendidi occhi.

“Qualcosa non va?”

Esitai qualche istante, sentendomi la persona più stupida dell’intero universo. Una bellissima ragazza si stava praticamente offrendo a me, ed io ero solo capace di perdermi in contorti ragionamenti.

“Ecco…” sospirai appena, prendendo coraggio “Il fatto è che tutto questo mi sembra piuttosto strano…”

Tessa inarcò un sopracciglio, inclinando appena la testa sul lato destro.

“Insomma…” continuai, sentendomi ogni secondo più stupida “Ci siamo appena conosciute… ed io…” una vocina nella mia testa continuava a ripetere stupida stupida stupida “Io non credo all’amore a prima vista”.

Lei rise, una risata sincera e allegra, ma con un pizzico di sardonica ironia.

“Chi ha parlato di amore?” domandò, muovendo qualche passo nel corridoio, mentre io la osservavo, ferma sulla cima delle scale.

Si appoggiò con la schiena alla porta della camera, posando una mano sulla maniglia e aprendola.

Mi avvicinai a lei, sollevata che quella domanda non avesse rovinato tutto.

Con calma posai le mani ai lati dei sui fianchi, per poi scendere verso di lei ed unire le mie labbra alle sue. Il mio stomaco si annodò ancora di più, e le mie ossa furono lentamente incenerite da quel calore incredibile; la strinsi più forte, quasi avessi paura di vederla svanire da un momento all’altro.

Tessa si staccò lievemente dalla porta, per poi ondeggiare all’indietro e colpirla con il fondoschiena, spalancandola.

“Questa è pura attrazione”

Scivolò via dalle mie braccia, e in quel momento mi sentii violata, come se qualcuno mi avesse strappato via un bambino dal petto. La separazione durò poco, la seguii all’interno di quella camera in penombra, fino al comodo letto matrimoniale. Mi guardai attorno: quella doveva essere la camera dei genitori dell’ospite; un lieve sorriso si fece strada tra le mie labbra: chissà se avevano immaginato una cosa simile, quando avevano permesso al figlio di fare quella festa.

Tessa si sdraiò sul letto ed io rimasi qualche secondo in silenzio, osservando le sue forme adagiate su quel morbido materasso. Ormai avevo capito che nessuno mi avrebbe picchiato e derubato, tuttavia ancora temevo che fosse solo un sogno, un’illusione. Possibile che una tale fortuna fosse toccata proprio a me?

La raggiunsi e mi sistemai sopra di lei, trovando nuova accoglienza tra le sue braccia morbide e bianche; mi strinse a sé con foga, baciandomi come se dovesse prosciugarmi l’anima.

Forse lo stava davvero facendo.

 

Se chiudo gli occhi riesco ancora a ricordare i dettagli di quella notte: la sua pelle bianca, le sue labbra ardenti, i gemiti di piacere che raggiungevano le mie orecchie, i suoi seni candidi e rotondi…

Mi sentii in pace, per la prima volta da una vita, così in pace che dopo aver fatto l’amore con lei mi abbandonai tra le sue braccia, e mi addormentai, mentre lei mi accarezzava i capelli, come una madre amorevole.

Al mio risveglio, tutto ciò che restava di lei era il suo profumo tra le lenzuola. Mi alzai e mi rivestii, correndo ad aprire la porta. Al piano di sotto, la festa stava andando avanti, senza intoppi, segno che non avevo dormito poi molto. Ma lei dov’era?

Scesi le scale, guardandomi attorno, ma di lei non sembrava esserci alcuna traccia. Nessuna delle persone a cui chiesi la conosceva, nessuno l’aveva vista. Passai il resto della notte a cercarla, a chiedere di lei, ma senza alcun risultato.

Passai tutta la vita a cercarla, senza alcun risultato.

Non la rividi mai più, ho solo il suo ricordo, che tengo stretto dentro il mio petto.

 

La notte me la regalò, e fu la notte a portarmela via.

Per sempre…

 

Speravo sarebbe stato più difficile.

Certo, per diversi anni avevo fatto parte dell’esercito americano. Avevo visto morire diversi soldati, portati via da una bomba o dal fuoco nemico. Avevo accolto la morte nella mia vita da tempo, l’avevo dispensata senza guardarmi indietro. Mi attaccavo a ogni residuo di umanità ripetendomi “E’ la guerra”, me lo dicevo ogni sera, mi cullavo nell’illusione di non essere un mostro.

Un’illusione destinata a scomparire…

 

Un giorno è cambiato tutto. E’ stato il giorno in cui ho conosciuto Lui, invischiato nella malavita fino alle punte dei suoi capelli castani, capo della Cleaner Foundation. Cos’è la Cleaner Foundation? Un’organizzazione che si occupa di “ripulire” la città dalla feccia: stupratori, assassini, pedofili…

Tutti la conoscono, tutti ne hanno sentito parlare, ma nessuno ne conosce i membri.

Ebbene, un giorno venne da me, durante uno dei miei pochi giorni di permesso. Ricordo la sua espressione fiera e decisa mentre mi proponeva di entrare a far parte di quell’associazione. Mi piacerebbe poter dire di essere stata dilaniata dal dubbio, all’idea di uccidere qualcuno in un teatro diverso da quello della guerra, ma la verità è che accettai subito, senza neanche un ripensamento.

Ed alla fine era arrivato il primo incarico, la prima uccisione.

 

Era una tranquilla mattina d’inverno, quando giunsi in Italia. Un sorriso illuminò le mie labbra quando arrivai alla biglietteria del Lucca Comics. Naturalmente indossavo un costume, così da poter agganciare la vittima, mi ero anche iscritta alla gara di cosplay.

Dovevo ammettere che Gwen aveva fatto un lavoro davvero fenomenale, il grande costume nero mi fasciava alla perfezione, ed il cappuccio nero e bianco mi dava la possibilità di oscurare parte del viso, indubbiamente un buon vantaggio per un’assassina. La parrucca bionda mi dava un po’ fastidio, con quelle grandi trecce che formavano una sorta di rudimentale cappio, ma non potevo lamentarmi, era necessaria per completare il costume e comunque mi sarebbe stata utile.

Cominciai a girare per gli stand, sorridendo felice, ma la gioia finì bruscamente non appena il mio sguardo incrociò la figura del bersaglio.

Con tranquillità mi avvicinai a lui, passandogli davanti con studiata indifferenza.

“Hey!” mi voltai “Il tuo costume da Medusa è veramente ben fatto!” mi disse lui con un sorriso. Io sorrisi a mia volta, celando dentro di me un moto di rabbia. Sapevo che sotto quell’amabile figura si nascondeva uno stupratore che aveva già colpito due volte.

“Grazie” .

Dovevo ammetterlo, il suo sorriso era spiazzante, guardandolo potevo capire come aveva fatto a condurre le sue vittime in quei vicoli oscuri.

Convincerlo a prendere un caffè con me per conoscerlo meglio fu semplice. Lo seguii attraverso la marea di gente che inondava quell’evento, fin dentro un piccolo vicolo.

Le mani cominciarono a sudarmi, presto avrei visto i suoi occhi mentre moriva. Un civile, non un soldato nemico.

Mi dava le spalle, così con una spinta lo feci cadere a terra, non se lo aspettava, per questo non reagì immediatamente, con lentezza si alzò sulle ginocchia, poggiando le mani a terra per aiutarsi. Era il momento.

Mi tolsi la parrucca -l’avevo detto che quel rudimentale cappio mi sarebbe servito- e serrai le trecce intorno alla sua gola, premendo con sempre più forza. La folla rumoreggiava nella piazza e nella strada, ma in quel vicolo c’eravamo solo noi.

Naturalmente lui cercò di liberarsi, non appena sentì la parrucca stringere sulla sua giugulare, ma nonostante la sua stazza non riuscì ad allentare la presa. Spirò pochi secondi dopo, la faccia violacea e congestionata. Con calma osservai i suoi occhi spalancati nella morte.

Non era stato difficile.

Mi sistemai nuovamente la parrucca sul capo e la coprii con il cappuccio. La gara stava per iniziare. Senza voltarmi a guardare il corpo, uscii dal vicolo e mi diressi verso il grande palco. Medusa avrebbe avuto la sua esibizione, come l’avevo avuta io.

 

Nelle gelide notti del campo mi consolavo pensando che in guerra è normale uccidere il nemico…

Che scusa avevo adesso?

 

Cleaner Foundation, Ep 02 – Troppa rabbia

Pubblicato: ottobre 2, 2013 in Crime

Stupratori, assassini, uomini violenti che sfogano la loro frustrazione su mogli innocenti, pedofili che rubano l’infanzia a quei poveri bambini… il mondo è pieno di topi, si muovono silenziosi, aspettando il momento migliore per rosicchiare il loro pezzo di formaggio. A questo serve la Cleaner Foundation: a ripulire la nazione dalla feccia che la ricopre.
Nessuno sa dove sia la sua sede, nessuno conosce i suoi agenti, nessuno sa chi sia il misterioso “Capo” che la guida, solo una cosa è certa: loro ci sono, si nascondono tra noi, pronti a proteggerci e vendicarci. Tramite un informatore anonimo, il nostro blog ha scoperto che la Cleaner Foundation è divisa in due grandi sezioni: la Sezione Investigativa e la Squadra d’Azione. L’esistenza di ulteriori ramificazioni non è stata al momento accertata. Dormite sonni tranquilli, cittadini, loro sono qui per voi.

Troppa rabbia

“Randy, questa qui è casa mia, quell’uomo è entrato in casa mia!”
Il volume della televisione era altissimo, ma la casa era deserta. Nessuno nel salotto, nessuno nel bagno, nessuno nella grande camera da letto, nessuno della camera della ragazzina. La porta d’ingresso era spalancata.
In quel momento, un suono sovrastò il rumore della televisione: un grido, un solo grido.
“Lasciami! Lasciami!”
“Stai zitta, stupida mocciosa!”

Quella sera i giornalisti furono molto impegnati col loro lavoro, nessun giornale, nessuna televisione, poté tacere sulla notizia.
Una ragazzina di appena tredici anni -Sylvia Brown- era stata rapita dalla sua casa, mentre i genitori erano al lavoro. Un colpo programmato al secondo, e adesso un’unica domanda rimbombava nella mente di tutti i telespettatori “Perché quel rapimento?”. I genitori non erano abbastanza ricchi da pagare un corposo riscatto, dunque i soldi non dovevano essere l’obiettivo del rapitore. E allora… si doveva forse pensare…

Una settimana dalla scomparsa
“Capitano, abbiamo trovato qualcosa”
Il Capitano Johnson si alzò di scatto dalla sedia, come se l’avessero punto con un ago.
“Cosa?”
Il tecnico fece un passo in avanti, sistemandosi gli occhiali sul naso aquilino
“A quanto pare visitava diverse chat, aveva molti amici online. Ma uno in particolare ha attirato la mia attenzione”
Così dicendo porse un foglio al Capitano, che si affrettò a prenderlo. I suoi occhi chiari si spostarono su quella fitta rete di parole.
“King185” lesse il nome del ragazzo con cui la giovane Sylvia stava chattando “Dunque si sentiva con questo ragazzo?”
“Tutti i giorni, per quasi tutto il giorno, tolte le ore di scuola”
“Sappiamo chi è?” domandò il Capitano, senza distogliere lo sguardo dalla trascrizione. A causa di quel lavoro aveva imparato ad indurire lo stomaco, ma di fronte alle timide dichiarazioni d’amore di quella tredicenne sentiva le lacrime pungergli gli occhi. Doveva trovarla, e quel bastardo doveva pagarla.
“No… non siamo riusciti a rintracciarlo”
Il Capitano strinse il pugno, accartocciando involontariamente la trascrizione.
“Tornate al lavoro, allora!”
Ma il tecnico non si mosse, sembrava quasi a disagio, e questo non sfuggì al Capitano.
“Che altro c’è?”
“L’abbiamo… trovata…”
Il Capitano squadrò il tecnico con uno sguardo curioso e preoccupato al tempo stesso.
“Che cosa intendi?”
Un secondo foglio venne consegnato ad un attonito Capitano. Johnson lo osservò: si trattava di una fotografia, rappresentava Sylvia Brown con addosso solo una lieve sottana trasparente, sotto quel tenue vestito era visibile l’intimità della giovane.
“Dove l’avete trovata?”
“Un sito di pedopornografia, minorenni in posizioni erotiche”
La rabbia del Capitano aveva ormai raggiunto enormi dimensioni. Se avesse avuto di fronte quel bastardo l’avrebbe ucciso. L’aveva rapita e poi l’aveva costretta a posare per lui.
“Immagino che non siate riusciti a rintracciare i gestori di questo schifo”
“No, signore”
“E allora torna al lavoro!”
Annuendo lievemente, il tecnico si voltò ed uscì dall’ufficio del suo superiore. Tuttavia non si diresse nuovamente alla sua postazione, ma, cercando di non farsi vedere, uscì dall’edificio a passo rapido.
Quel tecnico si chiamava Robert Miller, era un giovane uomo di circa trent’anni, con corti capelli biondi ed occhi azzurri sempre tristi. Inizialmente era entusiasta all’idea di lavorare per la polizia, ma presto il suo entusiasmo si era spento al contatto con quelle crude realtà. Non sapeva se sarebbe riuscito a rintracciare i gestori di quel sito, ma sapeva bene chi sarebbe riuscito a farlo.
Il Capitano non sarebbe stato d’accordo, ma per Miller la priorità era salvare quella povera ragazza. Lui ci sarebbe riuscito.

Dopo essersi allontanato dall’edificio abbastanza per non essere visto, estrasse il cellulare dalla tasca dei pantaloni e compose un numero che gli era ben noto. Aveva studiato Informatica con lui, sapeva che per Sebastian Sandrelli qualsiasi computer era un libro aperto… non si sfugge a chi ha fatto parte dell’Anonymous.
La voce dell’amico rispose al primo squillo.
“Robert! Dimmi!”
“Ho bisogno di te. Delle tue… capacità”
Dall’altro lato del telefono ci fu silenzio per qualche secondo, poi il rumore di una sedia spostata.
“Che succede?”
Robert sospirò appena “Hai letto di quella ragazza? Sylvia?”
“Sì”
“Abbiamo trovato una sua fotografia… in un forum pedopornografico”
Ancora silenzio dall’altra parte del telefono.
“Seb? Ci sei ancora?”
“Sì…”
“Pensavo che tu saresti riuscito a trovare i gestori”
“Dimmi il sito”
Robert glielo riferì, quindi chiuse la chiamata, sospirando appena. Sperava che Sebastian sarebbe riuscito a trovare le informazioni che servivano alla polizia, ma intanto anche lui avrebbe continuato a lavorare.

Quando aveva ricevuto la telefonata, Sebastian si trovava all’interno degli uffici della Cleaner Foundation. Senza aspettare oltre si introdusse nel deep web, e trovò in pochi tentativi il sito che gli era stato indicato da Miller. Subito immagini di ragazzine svestite e bambine mezze nude si aprirono di fronte a lui, un moto di disgusto salì dal suo stomaco verso la sua bocca, ma riuscì con molta fatica a non vomitare sulla lucida scrivania.
Trovò le immagini di Sylvia in pochi secondi, e subito una forte rabbia si impossesò di lui. Quale bastardo poteva fare una cosa simile?
Katherine si avvicinò all’uomo, posandogli una mano sulla spalla.
“Hey Seb!”
“Ciao…”
Notando la laconica risposta del ragazzo, di solito molto più allegro, Kate si abbassò, sbirciando lo schermo del pc dell’amico.
“Un sito pedopornografico?
“Sono apparse foto di Sylvia, la tredicenne rapita”
Katherine annuì leggermente, ma non disse niente. Con un sospiro si alzò e si allontanò appena, dirigendosi verso il suo ufficio personale.
“Buon lavoro” disse solamente, senza voltarsi.

Dieci giorni dalla scomparsa
Ci volle qualche giorno, ma alla fine Sebastian riuscì a rintracciare il segnale e a trovare la rete da cui si connetteva il gestore del sito. Certo, questo non significava averlo identificato, ma era un inizio. Forse avrebbe dovuto chiamare Robert, che sicuramente non era riuscito ad arrivare allo stesso risultato, e metterlo a parte delle sue scoperte, così che la polizia potesse andare avanti con i suoi mezzi. Ma aveva passato quei giorni a contemplare foto di ragazzine usate, spogliate, violate da quei porci che frequentavano abitualmente il sito e pagavano per scaricare i video, e adesso non poteva lasciare tutto in mano alla polizia. Nella migliore delle ipotesi si sarebbe fatto qualche anno di prigione. Troppo poco. Troppo poco per quello stronzo. E poi gli altri non avrebbero capito, gli altri mostri avrebbero continuato a far prolificare i loro siti impunemente. Serviva una lezione, a tutti loro. Per questo motivo non chiamò Robert.
Invece, accese l’interfono, collegato con tutti gli uffici della fondazione, compresi quelli dei dirigenti, solo quello del Capo era escluso, perché lui non voleva essere disturbato.
“Katherine McWilliams, Leonardo Torquani, Jess Foster, Miles LeFauvre, Butch Carson, e chiunque altro abbia voglia di lavorare… alla mia postazione!”

Nel giro di qualche secondi tutti gli interpellati arrivarono… Leonardo, Jess, Miles, Butch e altri ragazzi incuriositi, più una scocciatissima Katherine.
“Ti pare il caso di chiamare un tuo superiore con l’interfono?!” domandò appena raggiunse Sebastian
“Non avevo voglia di venire fino al tuo ufficio” si difese lui, scrollando le spalle in un gesto di noncuranza.
“Comunque vi ho chiamati per questo…” girò il suo portatile, così che tutti potessero vedere il sito incriminato. Le facce dei presenti si contrassero in uno spasmo involontario alla vista di quelle povere bambine.
“Sono riuscito a trovare la rete dal quale si collega il gestore”
“Quindi sappiamo chi è” fu la secca risposta di Katherine
“Non proprio. Si tratta di un’azienda, il gestore deve essere uno dei suoi dipendenti, ma non sappiamo quale”
Katherine si sedette sulla scrivania, spostando lo sguardo alternamente dal sito a Sebastian.
“Quale azienda?”
“Un bar”
Katherine lo guardò, spazientita
“Sì, va bene, quale bar?”
“Skyless Garden” rispose lui, con sguardo imbarazzato. Tutti i presenti si voltarono verso Katherine, a disagio, ma lei sorrise.
“Ci lavora la mia ex” disse, come se non fosse una cosa di cui tutti erano a conoscenza “Chi ci va me la saluti”
“Sul serio?” domandò Butch, inarcando un sopracciglio. Katherine lo guardò, inclinando appena la testa.
“No, ovviamente, stavo scherzando”
L’uomo, di tutta risposta, alzò le ampie spalle, scuotendo la testa.
“Quando mi darai il permesso di picchiarla, fammi uno squillo” sorrise appena, poi si voltò verso Sebastian.
“Ad ogni modo, io mi occupo di dare una lezione agli stupratori quando voi li trovate, non sta a me indagare. Quindi torno nella mia postazione”
Senza aggiungere altro se ne andò, lasciando Sebastian stupito e attonito.
“Ma… Butch!” si alzò di scatto, osservando il muscoloso uomo che se ne andava senza problemi “Come può restare così calmo?!” domandò, rivolto verso Katherine.
Lei scosse appena le spalle
“E’ Butch” rispose con ovvietà.
Con un lieve sospiro, Sebastian tornò a sedersi.
“Te ne occupi tu, Kat?”
La ragazza scosse la testa, scendendo dalla scrivania su cui si era appollaiata.
“Io devo pensare alla mia vita privata”
Miles sorrise appena, guardandola
“Tu hai una vita privata?”
Katherine gli sorrise, allungando la mano destra e dandogli un piccolo buffetto sulla guancia.
“Quando esco con una sì” senza aggiungere altro si diresse al suo ufficio, mentre Miles le urlava dietro “Poi racconta!”
Sebastian strinse i pugni, cercando di trattenersi, ma il rossore salito sulle sue guance ben manifestava la sua rabbia.
“Adesso basta!” gridò, alzandosi di scatto “Una ragazzina è stata rapita, probabilmente stuprata e di certo usata per la pornografia, e voi scherzate, ridete e pensate alle uscite di Kate?!”
La sfuriata fu sufficiente per far abbassare a tutti lo sguardo, in imbarazzo.
Dopo qualche secondo, Miles prese nuovamente la parola.
“Me ne occupo io” disse, mettendo una mano sulla spalla di Sebastian “Ma ho promesso a mia madre che avrei badato a Rudy, quindi devo portarlo con me”
Sebastian annuì appena, scrivendo su un foglietto l’indirizzo dello Skyless Garden “Va bene, ma solo per scovare quel bastardo. Poi occupatene da solo, o con qualcuno… ad ogni modo non con tuo fratello, non è il caso”
Miles non disse niente, si limitò a prendere il foglietto che Sebastian gli stava porgendo, e ad alzare le spalle.

Più tardi quel pomeriggio Miles e Rudy LeFauvre si fermarono di fronte al bar incriminato.
Miles LeFauvre era un bel ragazzo, alto e con corti capelli neri, molto folti, i grandi occhi verdi sembravano sempre intenti a scrutare tutto con attenzione. Il fratello, Rudy LeFauvre, era più basso di circa dieci centimetri, anche lui era moro, ma portava i capelli sparati verso l’alto, grazie a una dose abbondante di gel.
“E’ qui?” domandò al fratello maggiore
“Già” rispose lui, con un lieve sorriso. Senza attendere oltre, si diresse verso il bar, mentre il fratello minore lo seguiva diligentemente.
All’apertura videro subito la ex fidanzata di Katherine, ma lei non li riconobbe, in fondo li aveva visti solo un paio di volte.
“Jenny” Miles la chiamò, avvicinandosi, e questa volta lei sembrò riconoscerlo.
“Sei… un amico di Kat, giusto?”
“Già” Miles raggiunse il bancone, posandovi le braccia “Dove tenete i computer?”
Jenny sembrò sorpresa, subito si guardò intorno, come per accertarsi che non ci fosse nessuno.
“Pensavo fossi venuto per dire qualcosa a me… perché vuoi sapere dei computer?” domandò quindi, imbarazzata.
Miles non rispose, limitandosi ad osservarla per qualche secondo. Sotto quegli occhi verdi, Jenny abbassò lo sguardo.
Nel frattempo Rudy, senza farsi vedere, aveva superato il bancone e si stava dirigendo al piano di sopra, dove si trovavano gli uffici.
Miles lo vide con la coda dell’occhio, mentre Jenny sembrava non essersi accorta di niente. A questo punto doveva distrarla ancora un po’, così che non potesse accorgersi della sparizione di suo fratello.
“Hai ragione. Parliamo di te, allora. Che è successo con Kat?”

Nel frattempo Rudy aveva raggiunto il piano di sopra. Adesso però veniva la parte più difficile: come riconoscere il maniaco, tra tutte quelle persone?
Fece qualche passo in avanti, guardandosi attorno, e subito fu intercettato da una ragazza.
“Hey, ciao!”
Lui la guardò perplesso, stupito dal tono allegro dell’altra
“Che ci fai qui? Ti sei perso?”
Il ragazzo spalancò gli occhi, cercando di trattenere la rabbia: l’aveva forse preso per un bambino? Aveva quindici anni, non due!
“No” rispose quindi, con tono secco, quindi cercò di superare la giovane, che però lo afferrò per un braccio.
“Mi dispiace, non puoi stare qui… cercavi qualcosa?”
Con uno scatto Rudy liberò il braccio, guardandola con odio
“Ma tu chi sei? Lasciami stare!”
“Mi chiamo Karen” rispose lei allegramente “Ed ora dovresti scendere, davvero”
Quel nome risvegliò qualcosa nella mente del giovane
“Karen? La nuova ragazza di Jenny?”
La ragazza sembrò un po’ stupita, ma annuì appena “Sei un amico di Jenny?” chiese. Il ragazzo era disgustato alla sola prospettiva, ma in quel momento gli faceva comodo mentire, quindi annuì appena.
“Certo. Molto amici”
Subito Karen mostrò ancora più allegria di prima. “Oh, gli amici di Jenny sono anche miei amici!”.
Rudy sorrise, forse poteva utilizzare quella stupida per i suoi scopi.
“A cosa vi servono i computer? Siete un bar…”
Karen gli sorrise appena, inclinando la testa
“Soprattutto per i fornitori, ma anche per controllare le schede del personale, e per la contabilità”
“Quindi passate molto tempo al computer?”
“Solo il nostro contabile e a volte Jenny, per i fornitori”
Rudy sorrise appena: bingo. Gli sarebbe piaciuto se fosse stata Jenny, ma lo considerava piuttosto improbabile, dunque la scelta ricadeva sul contabile. Era lui la serpe che gestiva quel sito.
“Posso vederlo?”
Karen scosse le spalle, iniziando ad incamminarsi, Rudy la seguì con calma, ma sentiva uno strano formicolio partirgli dalla schiena ed arrivargli fino alla punta delle dita.

Arrivarono in un piccolo ufficio, l’interno era piuttosto spartano, solo una scrivania con sopra un computer, e accanto un piccolo schedario.
“Hey, Anthony, ciao!” Karen gli sorrise, entrando nell’ufficio “Lui è un amico di Jenny” disse, indicando Rudy “Voleva parlarti”
Con un semplice sorriso, Anthony Davis si alzò, avvicinandosi a Rudy con la mano tesa.
“Ciao, ragazzo!” disse, mentre Rudy gli stringeva la mano, cercando di frenare quello strano formicolio “Come mai volevi vedermi?”
“Dov’è?” domandò Rudy, con uno sguardo severo. Anthony sembrò stupito e subito fece un passo indietro, osservando quello strano ragazzo.
“Non capisco…”
“Sylvia Brown… dov’è?”
Adesso Anthony sembrava spaventato, cominciò a guardarsi attorno spasmodicamente, come un coniglietto in gabbia.
“Non so chi sia” disse, con un sorriso imbarazzato, mentre Karen osservava la scena, sorpresa.
Il formicolio aumentava sempre più e Rudy sentì la rabbia salire di conseguenza.
Con uno scatto si portò in avanti e colpì Anthony con un forte colpo allo stomaco, che lo fece piegare in due dal dolore.
“Sì che lo sai! Sei tu il gestore di quello schifo, ammettilo!” senza attendere oltre afferrò la testa di Anthony e la portò con uno scatto verso il basso, mentre il ginocchio scattava verso l’alto. Il naso dell’uomo non uscì bene da questo scontro.
Ma se Rudy si era avvantaggiato grazie all’effetto sorpresa, adesso Anthony era pronto a passare al contrattacco. Con un ringhio rabbioso colpì Rudy in pieno volto con un gancio destro, facendolo cadere a terra.

Karen si lanciò verso la porta, urlando per richiamare l’attenzione di tutti.
“Hey, qualcuno mi aiuti!” urlò.
Dal piano di sotto, Miles riuscì a sentirla e subito interruppe il dialogo con Jenny, per correre al piano di sopra, conoscendo il fratello aveva una chiara idea di cosa doveva essere accaduto.

Anthony si avvicinò a Rudy, ancora a terra.
“Stupido moccioso!” il primo calcio colpì Rudy al fianco, provocandogli un gemito di dolore. Con un rantolo, il ragazzo si voltò sulla schiena. Anthony alzò la gamba destra, pronto a colpirlo una seconda volta, questa volta allo stomaco; non fu abbastanza veloce, con uno scatto Rudy lo colpì con un doppio calcio all’unica gamba che forniva equilibrio, riuscendo così a farlo cadere, dolorante. Si rialzò e lo colpì allo stomaco con un calcio, come Anthony aveva in programma per lui.
“Dov’è, bastardo?”
Anthony cercò di rialzarsi, ma Rudy si sistemò sopra di lui, colpendolo al volto già dolorante.
“Non lo so” rispose Anthony, riparandosi il volto con le braccia, mentre Rudy continuava a cercare di colpirlo “Quelle foto mi sono state mandate, non so chi le abbia scattata!”
Un colpo lo prese alla mascella, lussandogliela “Lo giuro!”
Rudy alzò il braccio destro, pronto per colpirlo ancora, ma in quel momento sentì due forti braccia fermargli il corpo e trascinarlo all’indietro.
Si dimenò, cercando di liberarsi.
“Basta, Rudy!” la voce di suo fratello lo costrinse a fermarsi, e si lasciò trasportare a qualche passo di distanza da Anthony.
Miles afferrò il fratello minore per un braccio, trascinandolo giù dalle scale.
“Miles, lasciami! E’ lui, capisci? E’ lui!”
“Stai zitto!”
Il ragazzo più grande continuò a camminare, trascinando il più piccolo fuori dall’edificio.

Rapidamente raggiunse l’auto e fece accomodare il fratello sul sedile del passeggero, mentre lui sedeva al posto di guida.
“Lui può dirci chi gli ha spedito le foto! Possiamo trovarlo, capisci?”
“Se ne occuperà la polizia” rispose seccamente Miles, sotto lo sguardo stupito del fratello.
“Ma… che stai dicendo?”
Miles ingranò la marcia e partì alla massima velocità.
“L’hai picchiato davanti a tutti, adesso non abbiamo più spazio di manovra, dobbiamo ritirarci. Sebastian avvertirà la polizia di ciò che ha scoperto e loro faranno il loro lavoro!”

Miles guidò per qualche metro in assoluto silenzio, con la testa piena di mille pensieri, fu il fratello a riaccendere la discussione.
“Credi che la troveranno?”
“Non lo so” rispose il fratello, mantenendo lo sguardo sulla strada.
“So solo che hai combinato un gran casino”.

L’auto continuò ad allontanarsi a gran velocità, generando una nube di polvere su quelle strade deserte.